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Attacchi di panico, non solo farmaci: come guarire dalle crisi

Giulia Sorrentino
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Gli attacchi di panico sono in forte aumento in Italia e hanno un’incidenza di due volte maggiore nelle donne rispetto all’uomo, con una durata mezz’ora e mediamente durano 4/5 minuti, raggiungendo il picco intorno ai 10. Considerando la grande famiglia dei disturbi d’ansia, di cui il panico fa parte, più di 8 milioni di italiani almeno una volta nella vita si sono trovati a tu per tu con l’ansia, il disturbo psichiatrico più comune nel nostro Paese dopo la depressione, e di solo panico soffrono minimo 2,5 milioni di italiani in modo continuo.
Non appena si ha un attacco di panico molti riferiscono di un profondo senso di morte imminente, pensano di avere un infarto, un ictus, hanno la sensazione di impazzire e si recano quindi al pronto soccorso. Quello che invece bisognerebbe fare è dire a sé stessi che di panico non si muore, provare a fermarsi (soprattutto se si è in macchina, luogo in cui il panico colpisce spesso) ed eseguire una serie di respirazioni profonde dal naso e non dalla bocca, per riequilibrare il tasso di ossigeno e anidride carbonica, imparare a respirare bene è un metodo efficace che può aiutare a gestire la crisi in atto, ma non è il rimedio per eradicare la patologia.
I sintomi di un attacco di panico sono almeno 13, ma la maggior parte delle persone ha tachicardia, un senso di soffocamento che li porta a cercare subito una fonte di aria, il nodo in gola, come se non si riuscisse a deglutire e una sensazione di svenimento. Diciamo definitivamente alle persone la verità su come si curano, affinché non si facciano prendere in giro da chi promette che con anni di psicoanalisi migliorerà la situazione, perché il cervello è un organo come un altro che necessita delle giuste cure e ciò scientificamente non può essere confutato.
Quando il panico (diverso dalla paura, che è invece un’emozione primaria) comincia a non essere più relegato a uno o due episodi isolati, ma aumenta la sua frequenza, bisogna rivolgersi allo psichiatra, il quale deciderà se è o meno il caso di approcciare anche con una psicoterapia cognitivo comportamentale, che a differenza della psicanalisi ha una base scientifica. C’è però un problema culturale, perché quando si sente la parola “psicofarmaco” si immaginano scene di noi che diventiamo dipendenti, si pensa che cambino il nostro carattere, sentiamo risposte come “io non sono matto”, ma non è così.
Curarsi non vuol dire imbottirsi di benzodiazepine, i famosi ansiolitici, che creano dipendenza, ma è scegliere un farmaco che vada a ripristinare un equilibrio biologico che in quell’organo manca. Dobbiamo immaginare che la società iperconnessa in cui ci troviamo, gli orari e ritmi folli di lavoro a cui molti devono sottostare, l’abuso di caffè, la nicotina, la cannabis e altre forme di droghe fanno sì che il nostro cervello chieda un attimo di respiro e si ribelli e lo fa generando in noi uno spettro molto ampio di malattie. Si sta andando verso quella che è la psichiatria di precisione, che consente al medico di dare il farmaco giusto a seconda del caso, perché non c’è una cura uguale per tutti e il passaparola è dannoso: insomma, non si può chiedere al vicino di casa «ma tu che prendi?» come se dovessimo scegliere tra Chianti e Barolo. E infine arriviamo agli “apprendisti stregoni”. Certi pseudo-psicanalisti che orbitano in televisione e sui social e si presentano con facoltà apparentemente salvifiche, che promettono guarigioni miracolose senza alcun fondamento scientifico: questi meriterebbero un intervento del ministero della Sanità, poiché – essendo panico, ansia e depressione disturbi reali – possono davvero far danni, senza risolvere nulla e anzi portando i disturbi a cronicizzarsi, col paziente ormai costretto sulla sedia dello psichiatra. Figure apparentemente sempre serene, tranquille, quasi “zen”, ma che ti scuciono cento euro a settimana per una quantità indefinita di anni. 

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