Primo test per la diagnosi del morbo della mucca pazza

Una ricerca dell’Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’ e della University of Texas Medical School ha sviluppato un nuovo test per diagnosticare semplicemente con un’analisi delle urine la variante umana della malattia di Creutzfeldt-Jakob
di Maria Rita Montebellidomenica 10 agosto 2014
Primo test per la diagnosi del morbo della mucca pazza
3' di lettura

I ricercatori dell’Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’ in collaborazione con la University of Texas Health Science Center di Houston (UTHSC) hanno elaborato il primo test al mondo per diagnosticare in maniera certa e semplice il morbo della ‘mucca pazza’, cioè la variante umana della malattia di Creutzfeldt-Jakob: sono riusciti, infatti, a sviluppare un metodo per individuare in un campione di urina del paziente la presenza di prioni, cioè le proteine alterate che causano la malattia. Si tratta di un importante passo in avanti perché sino a oggi la malattia poteva essere diagnosticata con certezza solo dopo la morte del paziente, in quanto era necessario analizzare un campione del suo tessuto cerebrale nel corso dell’autopsia. Al contrario, il nuovo test rappresenta uno strumento di semplice somministrazione e non è invasivo. A rafforzare l’indicazione del rilievo della scoperta anche il fatto che allo studio, pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche internazionali, The New England Journal of Medicine, la rivista dedica anche un editoriale di commento. Sottolinea Fabrizio Tagliavini, direttore del Dipartimento di malattie neurodegenerative dell’Istituto ‘Carlo Besta’: “Questa tecnica è per ora disponibile solo a fine di ricerca ma potrà entrare a breve nella routine diagnostica, dopo la procedura di validazione comune a tutte le nuove tecnologie. La sua importanza è legata anche al fatto che il suo utilizzo non sarà limitato solo alla variante umana della malattia di Creutzfeldt-Jakob ma potrebbe essere esteso ad altre malattie neurodegenerative quali la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson o le demenze frontotemporali, attraverso la dimostrazione di marcatori specifici in tessuti periferici e liquidi biologici facilmente accessibili. Questo consentirebbe una diagnosi precoce e l’avvio di terapie (quando disponibili) nelle fasi iniziali della patologia, quando i sintomi non sono tali da permettere l’inquadramento diagnostico del paziente e i danni del cervello non sono ancora gravi e irreversibili”. Lo studio. Ad oggi è il prione è l’unico biomarcatore, cioè l’unica molecola presente nell’organismo, che possafornire la certezza che il paziente è colpito da una encefalopatia spongiforme, una famiglia dipatologie tra cui vi è la malattia di Creutzfeldt-Jakob. I ricercatori hanno potuto sviluppare un test sull’urina perché nel morbo della ‘mucca pazza’ ilprione, oltre che nel cervello, è presente anche in diversi organi periferici (milza, tonsille, intestino,muscolo, etc.) e, seppure in quantità infinitamente piccole, anche nel sangue e nell’urina. Al contrario, invece, nelle forme sporadiche e genetiche della malattia, cioè quelle di cui non si è in grado di individuare la causa e quelle derivate da mutazioni genetiche, il prione si accumula quasi esclusivamente a livello del sistema nervoso centrale, con la conseguente difficoltà di analizzare questi tessuti per individuarlo. Sinora, purtroppo, le comuni tecniche diagnostiche non erano in grado di rilevare le quantità infinitesimali di questa proteina alterata circolante nel sangue e nell’urina. Il test elaborato dal ‘Carlo Besta’ e dalla UTHSC di Houston, invece, analizzando questi liquidi biologici individua la malattia nel 93% dei casi e non dà “falsi positivi”, cioè non vi sono casi erroneamente diagnosticati. Il test. L’innovazione apportata dalla nuova tecnica risiede nell’avere la capacità di amplificare miliardi di volte le ‘tracce’ di prione presenti nell’urina dei pazienti, rendendole rilevabili. Questa tecnica è uno sviluppo di una procedura già nota e utilizzata sinora solo in ambito di ricerca, la Protein Misfolding Cyclic Amplification (PMCA). Ma come funziona la tecnica? Spiega Fabio Moda, ricercatore dell’Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’ che ha condotto e coordinato questo studio da lui iniziato nel 2012 alla UTHSC di Houston: “Una caratteristica peculiare del prione è quella di trasformare la proteina prionica ‘sana’ in una ‘malata’ quando ne viene a contatto. Il prione neo-formato, a sua volta, si lega ad altre proteine prioniche normali e le trasforma, innescando così un meccanismo di conversione a cascata che promuove la progressione della patologia. Quello che noi facciamo con la PMCA è alimentare con proteine sane il campione da esaminare: se i prioni sono presenti le trasformeranno in proteine alterate con un effetto a cascata, arrivando ad averne una quantità rilevabile con le comuni tecniche diagnostiche”. (ISABELLA SERMONTI)  

ti potrebbero interessare

altri articoli di Salute