Aristide Malnati esce e terremota l'Isola: "Sesso, cosa è successo". Poi la bomba: "Il vincitore? Si sa già: ecco chi è"
L'isola che non c'è è diventata subito, almeno nel mio caso, la isla bonita. Temevo di andare nella città dolente, nell'eterno dolore, tra la perduta gente dell'Inferno dantesco, ma subito, sempre con l'Alighieri, sono passato a riveder le stelle. Le stelle, punte di spilli della stellata dei tropici, che hanno illuminato le notti a curare il fuoco con Enzo Salvi e Fiordaliso: un distillato di emozioni, una carrellata di racconti di antichi miti e dei fondamenti dei giganti del pensiero greco, che ho proposto loro, facendo partire profonde riflessioni, amplificate dalla magia del contesto. E con Fiorda ed Enzo anche il resto dei naufraghi era, chi più chi meno, abbacinato dalle antiche gesta degli eroi greci o dei faraoni egizi; e stimolato, per non dire divertito da paragoni, a volte lusinghieri, ma a volte irriverenti, che ho fatto tra ciascuno di loro e omologhi di 2-3000 anni fa. Ecco la mia Isola, spero, anzi credo di averlo comunicato, è stata un'esperienza tra sogno e mondo reale, tra realtà e fuga dalla stessa sulla scia del salto temporale generato dalle storie di antiche civiltà. Insomma un'esperienza olistica, che in greco antico nient'altro vuol dire che totalizzante. Questa è stata l'Isola dei famosi, nel mio caso, ma, credo senza timore di sbagliarmi, anche per molti altri. Ho pianto (le lacrime sono sgorgate copiose ben 5 volte: non piangevo da 20 anni...) e ho riso; ho patito (anche fisicamente) e gioito; ho anche amato, la vita almeno, l'ho amata come non è possibile fare coi filtri della civiltà e del benessere, ma l'ho avuta anche in uggia: odi et amo, scriveva Catullo (e l'ho recitata alla Bonas e a Patricia Contreras, che nude applaudivano): Catullo lo scriveva per una persona, che lo faceva impazzire, Lesbia, io per un territorio fisico e metafisico, l'Isola (le isole), che mi ha ospitato per un mese (5 puntate). SOLITUDINE TOTALE L'Isola dei famosi è stata per me Playa Soledad: è ovvio che sia così. La solitudine totale e, forse, rigenerante di un lembo di terra, di ostile natura leopardiana, con cui si deve fondere, se no precipiti in un incubo. È facile dirlo («sto bene da solo, così ho i miei spazi»: chi non l'ha mai detto? ma chi l'ha realmente fatto, senza l'assillo confortante del cellulare, amico irrinunciabile?) Ebbene io l'ho fatto, l'avete visto. A Playa della solitudine ho vissuto la metafora dell'abbandono e della perdita degli orizzonti, ma ho vissuto, finalmente dopo lungo tempo (dal periodo degli scavi archeologici in Egitto). E vivere (nel senso latino: godersi appieno l'esistenza) mi ha ricaricato il fisico, dopo gli stenti dei problemi intestinali (risolti anche grazie a una flebo) e mi ha rilanciato verso la battaglia, come fece l'eroe greco Filottete (leggetevi l'omonima tragedia di Sofocle), che, ferito a un piede, fugge su un'isola solitaria (guarda un po'...), vince la cancrena, e torna in battaglia, decisivo per la vittoria. Ma l'Isola è un game, il gioco, crudele nelle sue dinamiche. Non c'è una tattica per vincerlo, ciascuno usa la propria. E subito le strategie sono state messe in atto. Ragazzini irriverenti e terribili (Jonas e Mercedesz, poi Gracia e Christian) hanno da subito messo in atto il piano di lesa maestà, con lucidità e consapevolezza scientifiche. E inevitabilmente è avvenuta la caduta degli dèi, anzi dell'unica divinità vera, dell'ape regina, della faraona Hatshepsut, la regina egizia, che per 22 anni pensò di dominare in riva al Nilo, ma della quale, una volta spodestata, venne cancellata ogni traccia. Simona Ventura è fuori dal gioco: Davide ha fatto fuori Golia (il fido Orfei), in un inconsapevole e inevitabile tradimento, che ha il sapore di un antico intrigo di corte. Ma, è ovvio, il domatore di tigri, è stato supportato dalle armate ispanico-magiare nel televoto: i gruppi a sostegno di Jonas e Mercdesz (di Malaga lui; ungherese da parte di madre, lei, la bellissima Afrodite del Danubio) hanno sostenuto il figlio di Moira, sempre più apprezzato, ma forse non a sufficienza per mandare a casa un pezzo di storia della tv patria. I FAVORITI A proposito dei due ragazzini: sono ora favoriti, e di molto, anche su Carta che pure godrebbe di un gruppo di fan, a suo dire nutrito nutrito, ma frenato dalle sue debolezze e dalle sue fragilità. Stanno giocando benissimo. Il loro legame sembra quello di Diabolik ed Eva Kant, eroi demoniaci del male. Finto o reale che sia (per me più alluso che animato da vera passione, anche se lei è spesso in preda a cascate di ormoni), sta veicolando i due enfants terribles verso la finale. Jonas è un attore: forse, come leggo sui social «un attorino» nel Segreto (soap targata Canale5, con un pubblico un po' datato, che tuttavia sommato alle pletore di minorenni di Televotanti di Uomini e Donne, dove lo spagnolo è tronista vincente costituiscono una valanga di voti sicuri); ma sicuramente un grande interprete nell'Isola. Cerca la telecamera e ti loda; l'operatore sparisce e ti accusa, usando termini del gergalismo da caserma, che nemmeno Marco Mazzoli dello Zoo di 105 conosce. Una volta il principe spagnolo, vedendo il sottoscritto e Orfei fieri di un pesce pescato (era il primo in assoluto, dopo due settimane) ci disse, con rabbia malcelata: «Son contento per voi». Arriva la telecamera e con un sorriso a 36 denti afferma con studiata cortesia: «Bravissimi ragazzi. È La vittoria del gruppo». La mia Isola era partita male, ma il male è sgorgato in bene. L'accendino: era arrivato sull'Isola trasportato dalla Fiorda, che pretese che mai avremmo rivelato l'inghippo, neanche davanti all'evidenza. Claudia finisce subito in nomination, contro il terribile, odiato spagnolo. Claudia cucina benissimo: vuole il fuoco, il più presto possibile, per mostrare il suo valore degno di Masterchef. Il giorno successivo tutto avviene in un nanosecondo. Le telecamere latitano sui primi battibecchi del gruppo. Claudia mi prende un braccio: «Dai amor andiamo laggiù. Coi tuoi occhiali si accende il fuoco». E così fu, ma con il magico accendino rosso, non certo con delle lenti, pur consistenti, ma che non sono certo gli specchi ustori di Archimede. Ormai, credo, che accendino e occhiali facciano parte della storia della tv italiana, come il parrucchino di Paolo Limiti. Dal primo confessionale post fuoco (per il quale ho esultato in maniera goffa: non riesco a fingere, son fatto così) ho subito capito che in Palapa sulla seconda puntata ci avrebbero fatto il mazzo. E così è stato. Ma il mazzo l'hanno fatto al sottoscritto: in tv, nella comunicazione vige la reductio ad unum, il capro espiatorio su cui riversare la marachella del gruppo, l'Ifigenia da sacrificare. E chi meglio di un povero ipovedente che ha paragonato la bischerata collettiva all'impresa di Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi dell'Olimpo? E come Prometeo pagai il fio. Ma non ho la resistenza eroica alla dannazione eterna dell'eroe greco. Signorini, amico di una vita lo sa; mi sgama, per lui il mio volto cadaverico e cianotico è un libro aperto. Nel colloquio con lo studio sgorgano le prime lacrime, la confessione è pronta: «Dirò tutto domani, nel primo confessionale», annuncio. Ormai è chiaro. La sera lo annuncio al gruppo. Fiorda, irrinunciabile barricadera, è furiosa, gli altri capiscono: sono, siamo schiacciati dal senso di colpa. Il giorno dopo confesso, a nome di tutti. Abbiamo espiato la pena per la marmellata rubata. Siamo scevri dal peccato. Da lì parte l'Isola, soprattutto la mia Isola: equidistanza dai gruppi, ben disposto con tutti, racconti antichi e arcani, ma soprattutto ironia, tanta ironia, che fanno breccia sui miei compagni e ne rallegrano gli animi. Battute spontanee, con Enzo e Fiorda. Persino gli operatori, simili a inquietanti spie sovietiche, ridono, a volta alle lacrime, come quando dico a Fiorda che ho appena ingoiato la pillola antiprurito, arrivata dalla produzione, ma che mi è venuto il dubbio che fosse una supposta. Improvvisamente io e Supersimo cambiamo location: arriva una bussolotto con un messaggio. Mercedesz, quasi indemoniata, si tuffa sul contenitore, lo apre convinta che la riguardi (tutto ciò che accadeva l'Afrodite figlia di Eva era convinta fosse destinato a lei: lei è la wonderwoman al centro del globo del reality). Che delusione quando legge che il messaggio, vergato su pergamena, è destinato a Simona e Aristide «esimi senatori dell'Isola dei Famosi». Dobbiamo andare dai nudi (vedendo le loro pudenda, ma conservando i nostri indumenti, anche perché da loro i mosquitos imperversavano): gli dobbiamo portare il fuoco, in cambio ci daranno una maschera che servirà a Marco Carta per pescare 15 enormi ricci, contenenti piccoli frammenti di uova, che non nutrirebbero neanche una formica, ma che in compenso hanno mandato Gracia e Alessia, desiderose in maniera febbrile di mostrare le proprie, presunte abilità culinarie, dritte dal dottore, con quattro aculei a testa nelle dita. Dunque la Playa desnuda: io e Simona tre giorni e due notti con Giacobbe, Paola e Patricia. Lasciamo gli intrighi di Cayo Paloma («tramezzino galleggiante con attitudine al cicaleccio da portineria», così Enzo Salvi) e giochiamo a fare i survivers. È un bel gioco, vero, maschio. Qui conosco la vera Simona. Io ho conosciuto la vera Supersimo, quella che tutti ricordano, ma che nessuno ha visto a Cayo Paloma tra i veleni del gruppo o a Playa Soledad in un'improba solitudine. Si prodiga: fa legna col magnifico atleta Giacobbe, pesca con me e le ragazze (che finalmente non litigano più); e soprattutto prepara un fantastico risotto ai granchi e paguri, con ricci e grosse e sapide lumache, che altro che quello degli chef improvvisati di Cayo Paloma. Supersimo torna Supersimo. Torniamo a Paloma carichi, vogliamo entusiasmare il gruppo, ma i veleni sembrano essersi triplicati. Il gorgo dell'intrico ci piega. L'Isola è anche strategia e muscoli per vincere. IL MIO AMICO A Playa Desnuda ho lasciato un amico, un gigante buono e gentile, un eroe d'altri tempi, degno di una tragedia greca. Giacobbe Fragomeni, comunque andrà, è il vincitore dell'Isola. Ha alle spalle l'inferno dell'infanzia nel degrado della periferia di Milano. Disagi famigliari, l'inferno della droga e del male l'hanno colpito, ma mai vinto. È lui che ha vinto: il riscatto l'ha ottenuto a suon di cazzotti. Uno dopo l'altro, dati agli avversari coi pugni, ma soprattutto col cuore. Piegando gli avversari, nell'assoluta legalità dello sport, vincendo tre volte il titolo mondiale dei massimi leggeri. Una famiglia magnifica quella di Giacobbe, un legame di amore reciproco, che la lontananza del capofamiglia raddoppia. Giacobbe, l'Ercole buono, che si batte per l'umanità (leggi i naufraghi), la sua Isola l'ha già vinta. Ma, se tutto ha un senso, l'Isola deva comunicare questa storia potente, che tanto fa onore al nostro Paese; e, oltre a comunicarla, possibilmente le dovrebbe conferire l'onore finale del primo posto. Il trionfo di Giacobbe sarebbe un messaggio di altissimo valore. di Aristide Malnati