Il business del marmo che divora le montagne, così scompaiono le Alpi Apuane /Video
Roma, 23 apr. - (AdnKronos) - Cime mozzate, crinali incisi, discariche minerarie, falde acquifere inquinate e un intenso traffico di mezzi pesanti. “Tornate tra qualche settimana a guardare come cambia la forma delle montagne. Il marmo è una ricchezza, sì, ma una ricchezza che ci impoverisce”. E' la denuncia di Luca Tommasi, della Commissione tutela ambiente montano del Club Alpino Italiano, che si unisce a quella di cittadini e associazioni che da anni si battono per le Alpi Apuane, “le montagne che scompaiono”: spaccate, erose, frantumate per cavare non solo il marmo più pregiato, ma anche gli scarti di lavorazione usati in diversi settori dell'industria. In termini di volumi estratti, il Cai stima che per ogni tonnellata di marmo in blocchi vengano distrutte dieci tonnellate di montagna. Un'attività che ogni anno “mangia” 4 milioni di tonnellate di montagna, circa un milione e mezzo di metri cubi. L'industria del marmo qui ha dato vita, negli anni, a 765 cave, circa 150 quelle attive (di cui una settantina all'interno del Parco Regionale Alpi Apuane, inserito all'interno della Rete dei Geoparchi). Negli ultimi 20 anni, nelle Apuane si è scavato più che in 2000 anni di storia delle cave. Il risultato? La modificazione del territorio apuano è paragonabile a quella avvenuta in un'era geologica. Ma a scontrarsi qui ci sono, da una parte, gli interessi imprenditoriali (compresi quelli dei Bin Laden), dall'altra le ragioni ambientaliste. Le cave vengono date in concessione dai Comuni (Massa, Carrara, i Comuni della Versilia, della Lunigiana e della Garfagnana) e sono in mano a poche famiglie – denunciano le associazioni - che si sono arricchite con questo business. Tra queste, la famiglia Bin Laden che nel 2014 ha acquistato il 50% della Marmi Carrara, che ha la concessione per circa un terzo delle cave di marmo bianco delle Apuane, pagando 45 milioni di euro alle quattro famiglie proprietarie. Ad accaparrarsi il 50% della Marmi Carrara è così la Cpc Marble & Granite Ltd, con sede a Cipro, appartenente al gruppo della famiglia del terrorista saudita fondatore di al-Qaida. Secondo il "Rapporto Cave 2014" di Legambiente, oggi il Comune di Carrara incassa dal marmo 15 milioni di euro l'anno: una bella cifra che però sarebbe 2-3 volte superiore se venissero introdotte modifiche a un regolamento, quello degli agri marmiferi, che impone canoni slegati dal valore di mercato del materiale estratto e permette di fatto la totale esenzione per circa un terzo delle cave oggi considerate praticamente private. Insomma, il marmo di Carrara non è considerato un bene comune ma arricchisce pochi. E se sono irrisori i canoni di concessione pagati da chi cava, un ragionamento specifico va fatto proprio per le pietre ornamentali dove a fronte di un peso ridotto nella quantità estratta vi sono enormi guadagni in cambio di canoni irrisori. Nel caso di Carrara nel 2012 per gli inerti le casse pubbliche hanno incassato l'8,8% rispetto ai guadagni delle aziende: 15 milioni di euro a fronte di 168 milioni per i privati. Intanto, secondo l'Istat, la provincia di Massa Carrara presenta il tasso di disoccupazione giovanile più alto: nella media 2009-12 il tasso nazionale di disoccupazione giovanile è 21,1%, quello totale 8,8%; a Massa Carrara il tasso giovanile si attesta al 30,5% e quello totale all'11,6%. E se nel 1926 erano 14.182 i cavatori a libro paga, oggi sono scesi a circa un migliaio per una produzione di 1.500 tonnellate l'anno di marmo. C'è poi la questione delle acque. Ogni volta che si verifica una pioggia consistente l'acqua del Cartara, del Frigido e dei suoi affluenti si tinge di bianco: colpa dell'immissione nel sistema carsico della polvere di taglio dei marmi (la marmettola) delle cave a monte che, dilavata dai piazzali di lavorazione, viene trasportata, insieme con gli oli esausti utilizzati dalle macchine da taglio, fino nei torrenti. L'impatto dell'attività, secondo l'Arpat Massa Carrara, riguarda suolo e sottosuolo per inquinamento da sversamento di oli; le acque superficiali per alterazione dei parametri chimico-fisici (Ph, torbidità, presenza di contaminanti). Senza contare i costi di depurazione, caricati direttamente nelle bollette degli utenti, e il passaggio di circa cento i passaggi di camion ogni giorno per il trasporto degli inerti. A fronte di questa situazione, il nuovo piano paesaggistico della Regione Toscana "ha messo sotto tutela le apuane sopra i 1200 metri - spiega all'Adnkronos il presidente del Parco Regionale Alpi Apuane Alberto Putamorsi - un passo in avanti che sposta i paletti a favore dell'ambiente pur consentendo l'attività estrattiva e che, soprattutto, inserisce il concetto di filiera corta affinché il materiale venga poi lavorato in loco garantendo che la ricchezza rimanga sul territorio". Meno ottimiste le associazioni: “il nuovo piano paesaggistico contiene una serie di deroghe che lo rendono inefficace a contrastare il fenomeno – spiega all'Adnkronos Franca Leverotti, consigliere nazionale di Italia Nostra - e si apre la strada a nuove cave contemplando la riapertura di quelle dismesse". Eppure il Presidente del Parco rassicura: le 70 cave attive all'interno del parco "sono soggette a regole di tutela e salvaguarda diverse rispetto a quelle che si trovano fuori dal Parco. Certo: dovremmo andare verso un'ulteriore riduzione di queste attività e verso un'escavazione di qualità, ma fatta con ragionevolezza, nei tempi e nei modi dovuti, e puntando su tecnologie sempre meno impattanti". Posizione in parte sposata anche dalle associazioni. “Noi non siamo contrari alla cave, ma chiediamo che si scavi solo il marmo che serve per fini artistici e decorativi, cioè in blocchi – spiega Leverotti - invece in queste cave da 25 anni circa la Regione ha imposto una vecchia normativa per cui dato un numero 100 si può estrarre un 80% di frammenti e un 20% di marmo in blocchi (25% e 75% nel caso delle Apuane)". La devastazione della montagna dipende dunque da questo rapporto: di quei 5 milioni di tonnellate di montagna esportate da Carrara l'anno, l'80% è detrito che viene lavorato, qui o altrove, per essere ridotto in polvere di marmo utilizzata in vari settori, dalla cosmesi all'industria alimentare. Questo rapporto è il frutto eredità di una vecchia norma risalente a quando il marmo si estraeva con la dinamite, provocando grandi quantità di detriti, cosa che oggi non accade più grazie alle nuove tecnologie. “Un regalo agli industriali le cifre irrisorie che questi devono pagare: solo 9,99 euro di tassa comunale per 1 tonnellata di marmo in blocchi che può arrivare a valere fino a 6mila euro alla tonnellata”, aggiunge Leverotti.