Cerca
Cerca
+

Marco Fratty, Rich in Paradise e la house all'italiana: "Così sono diventato uno dei big al mondo"

Leonardo Filomeno
  • a
  • a
  • a

"Il mio nome è nella storia della dance. Certo, non posso paragonarmi a Whitney Houston. Ma grazie a Rich In Paradise nella house sono tra i big al mondo. Non potrei chiedere alla vita più di quanto non abbia già avuto". E' un pomeriggio carico di pioggia, belle emozioni e sorrisi e dall'altra parte della cornetta c'è il bergamasco Marco Fratty. Dj producer conosciuto ovunque, sempre attivo tra studio e serate, racconta l'avvincente epopea della house italiana, dove con gli FPI Project era protagonista. E con l'esperienza e il fiuto di chi gli strumenti del mestiere li conosce a menadito, analizza della musica presente e passato. L'input è la buona partenza del progetto MFX2, ispirato alla disco anni '70 ma immerso nella house odierna.

 

 

 

 

 

 

MFX2 sta per MF x 2, ossia Marco Fratty e Marco Flash. 
"Investiamo su cantanti, arrangiamenti, video. Puntando alla massima qualità i risultati si ottengono. Ce ne stiamo accorgendo col nuovo singolo Saving your Lovin'. Mentre in primavera il nostro remix di Good Times, nella versione cantata delle Sister Sledge, è balzato nelle Top 5 della rivista inglese Music Week (Bibbia per gli addetti musicali e dello showbiz in UK, ndr). Con esso abbiamo totalizzato 10.000 download, nulla rispetto ai numeri degli anni '90. Però viene da ridere se pensi che con 25mila download oggi porti a casa il finto disco d'oro e ai tempi di Rich In Paradise per ottenerlo serviano 1 milione di copie fisiche. Infatti in Italia ci fermammo a quota 30mila e non lo vincemmo".
Ti ispirasti ai produttori della 'early house' per realizzarlo. 
"Ero appassionato di etichette come D.J. International Records, il mio produttore di riferimento era Mr Lee. Costruiva le basi partendo da groove di produzioni degli anni '70, e sotto metteva la cassa della TR-909 Roland. Capire i passaggi non fu semplice all'inizio. Cominciai a fare delle prove col campionatore nel mio Garden Studio, aperto 2 anni prima. Rich in Paradise stava prendendo forma. La mia base però era più marcata rispetto a quelle dei dischi americani". 
Di corsa lo portasti a Roberto Intrallazzi ed Corrado Presti, i tuoi soci. 
"Rimasero increduli. 'Facciamo un bel tarocco, ossia il classico vinile bianco da far girare tra i dj come promo', dissero. Luciano Berry, che da lì a poco sarebbe subentrato come quarto socio, la pensava diversamente: 'E' un'idea geniale, portiamo il singolo alla No Stop di Milano e pubblichiamolo ufficialmente'. Aveva ragione".
Come erano divisi i ruoli negli FPI? 
"Il 70% delle idee partivano da me, poi sottoponevo la bozza agli altri. Stesura e finalizzazione le effettuavo con Intrallazzi. Io e lui, durante le serate, eravamo ai sintetizzatori. Presti si occupava degli aspetti organizzativi dei live e Berry di quelli commerciali legati alla pubblicazione dei dischi. La nostra etichetta si chiamava Paradise Project Records".
In 'Rich In Paradise' Paolo Dini scherzava nell'intro, con un tono simil-serioso. E il piano lo suonava tuo fratello. 
"Dini all'epoca lavorava a Radio Milano International. La frase Hey you! Don't be silly, put a condom on your willy... la prendemmo da una maglietta tanto in voga in Inghilterra. Era un filo esagerata (risata, ndr). Aalgaard, che compariva tra gli autori, era mio fratello, si chiamava Roberto anche lui. I giri di piano che senti in Rich In Paradise ed altri singoli sono in realtà molto tecnici. Siccome era un insegnante di conservatorio ma non voleva esporsi nel mondo della musica leggera scelse uno pseudonimo".
 

 

 

 

 

 

 

Per il grande salto servì un cantato vero. 
"Il singolo partì dalle disco inglesi e rimase quasi un mese al numero 1 della club chart in UK. Ma con quella versione, nei fatti strumentale, non andammo oltre alla 24esima posizione nelle classifiche di vendita in UK. Aggiungemmo un bella chitarra e ci venne l'idea di far ricantare sulla base il classico Going Back To My Roots a Sharon Dee Clarke, voce calda, robusta, bellissima". 
E dritti a Top of the Pops, prima e seconda volta. 
"Volammo fino al nono posto della classifica inglese di vendita. Solo lì vendemmo 700 mila copie. Rich In Paradise fu stampato in almeno 13 paesi nel mondo e con quel singolo arrivammo a vendere 2 milioni di copie. In totale, con i restanti dischi, arrivammo a 3 milioni".
Quanto si guadagnava con quei dischi? 
"Più di qualche miliardo l'ho portato a casa. Tanti di quei soldi li spendevo per il mio studio. Ho comprato mixer da 44 milioni di lire. Ogni 6 mesi usciva un aggiornamento, il livello degli strumenti per produrre musica era altissimo, non come adesso che con poche migliaia di euro hai tutto. Ho fatto in tempo anche a comperare un casa con quel denaro (sorriso, ndr)".
Finita la sbornia dell'Italo House, vi buttate sull'Eurodance. 
"In quel filone spiccavano, tra tutti, i ragazzi della Media Records di Brescia. Noi facevamo una imitazione dell'euro dance, e non funzionò. Così come loro, in precedenza, avevano cercato di imitare noi con la Spaghetti, senza risultati". 
Nella Spaghetti House è giusto definirvi pionieri? 
"Sì, partì da noi. Quelle pianate hanno creato uno stile che tutti hanno definito così. In Inghilterra, dove ci esibiamo nei festival, la gente impazzisce ancora quando ci sente all'opera. Ci contendiamo il trono con i Black Box di Daniele Davoli. Sono nati nello stesso anno, in UK eravamo in classifica insieme. Noi con Rich In Paradise, loro con Ride On Time."
Amici o rivali? 
"Davoli ogni tanto lo sento, ci ha indirizzato e 'sponsorizzato' in alcuni party nel Regno Unito".
Intrallazzi non si esibisce più con gli FPI. 
"Siamo rimasti amici. Abbiamo tenuto in piedi gli FPI fino al '98, quando chiudemmo l'etichetta. Continuai a produrre dischi con Roberto fino al 2003. E qualche mio singolo per la sua Cube Recordings ancora lo pubblico. Nel 2008 iniziarono a chiamarci sempre più spesso in UK per esibirci come FPI, l'Old school stava tornando di moda, e ci riformammo come gruppo. Roberto aveva già lanciato i Cube Guys. Amichevolmente, si decise che ci saremmo esibiti solo io, Presti e la cantante Sharon May Linn".
L'umiltà di Coccoluto e l'approvazione di Kevorkian.  
"Francois Kevorkian aveva mixato dischi importanti per Yazoo e Kraftwerk, come dj era avanti anni luce. Stravedeva per Rich In Paradise. Invitò Intrallazzi e me ad una sua serata storica a New York, si chiamava Body and Soul. Rimanemmo con lui un'ora e mezza in console e ci chiese di esibirci. Preferimmo non farlo. Il compianto Claudio Coccoluto, invece, ci chiese di remixare Everybody (All Over The World). 'La mia versione è più brutta della vostra, non mi piace', disse. Rinunciò alla pubblicazione. Professionale e come pochi umile. Oggi se la credono per molto meno, i giovanissimi soprattutto. Hanno un singolo al 40esimo posto sul digital store Beatport, che in realtà interessa a pochissimi, e si sentono 'arrivati'".
Il concetto di 'artista' è saltato. E nella house siamo al già sentito del già sentito. 
"Nuove rivoluzioni nella musica da ballare non ce ne saranno. Però la gente capisce e non smetterà mai di cercare la qualità. La vera musica resta quella degli anni '70 ed '80, serve studiarla per campionarla in maniera non banale o ripetitiva, con sotto una nuova cassa e basta. Solo l'approccio del musicista e la pazienza nel risuonare ogni strumento rendono un brano nuovo e vivo. Ci sono ragazzi che vogliono fare house senza avere punti di riferimento precedenti al 2000 e magari sono convinti che Good Times degli Chic sia una produzione recente. L'unica eccezione è Purple Disco Machine, che ha capito l'italo disco e la ripropone con successo. Il punto è semplice: se in questo mestiere non punti a scrivere la tua storia è inutile che tu lo faccia".
La tua storia nella musica come inizia? 
"Nel 1983 frequentavo l'ultimo anno delle superiori. Mi proposero la console del Boomerang di Bergamo, a 10 km da casa. Il dj resident andava via. Rimasero colpiti da come mettevo i dischi in una radio locale. Erano gli anni della italo disco, ma non mi piaceva. Però grazie ad essa ho imparato ad utilizzare i campionatori. Avevo il privilegio di frequentare lo studio del mio amico Pietro Pelandi, in arte P. Lion, uno che nel mondo ha venduto 6 milioni di dischi. Era il 1985. Gli emulator, i mixer, i registratori, l'analogico che sarebbe poi diventato digitale. Da lui ho imparato tutto. Mi portavo avanti, la house stava arrivando. E la mitica avventura con gli FPI avrebbe preso il via da lì a poco".

Dai blog