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Alberto Tomba, "Vincere in salita"? Perché il racconto è parziale

Fabrizio Biasin
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 È uscito questo docufilm dedicato ad Alberto Tomba dal titolo accattivante: Alberto Tomba - Vincere in salita. Lo trovate su Netflix e suona un po’ come un ossimoro: «Ma come, lui re dello slalom in picchiata, che vince in salita?». E lì la curiosità ti fotte e schiacci “play”.

In realtà schiacceresti ugualmente perché si tratta di una micidiale leggenda italiana e non puoi farne a meno. Capiamoci: qui non si tratta di banale interesse per uno sportivo, semmai di passione per un connazionale che all’epoca (Anni 80 e 90, ah, gloriosissimi...), conquistò anche la mia e tua nonna che dello sci si interessavano più o meno come dell’astrofisica applicata.

Tomba - signore e signori ma, soprattutto, ragazzine e ragazzini privati della possibilità di “vivere” il fenomeno - è un tale che un bel giorno (27 febbraio 1988) ebbe la forza immane di bloccare il Festival di Sanremo, ovvero l’evento per eccellenza della televisione italiana. Andava in scena la seconda manche dello slalom speciale e i conduttori Miguel Bosé e Gabriella Carlucci dissero così: «Interrompiamo il Festival per tifare insieme Alberto». Vinse il secondo oro, ça va sans dire. Tomba, ragazzine e ragazzini, è un tizio che bloccava il Paese nel vero senso del termine e ci riusciva come e più di una finale di Coppa del Mondo, e davanti allo schermo finivano incantati bimbi di 5 anni e matusa di 100, tutti lì a tenere il ritmo: «Op op op!».

Tomba, amici cari, aveva la forza di trasportare decine e decine di migliaia di tifosi e appassionati non a San Siro o al Maradona, ma nelle valli più sperdute dell’arco alpino o delle montagne del Canada. E la gente impazziva perché come con Ronaldo (sì, il Fenomeno) tu non sapevi se avrebbe vinto (molto probabilmente) oppure no (raramente), ma sapevi che qualcosa sarebbe accaduto, anche solo una caduta che si trasformava in vittoria grazie a un impressionante colpo di reni.

Tutto questo è ben spiegato nel docufilm che racconta vita, opere e miracoli di un cittadino bolognese precipitato in un mondo non suo, quello dei montanari, un istrione col carattere di un bagnino romagnolo finito a combattere con gente “tagliata grossa” come Pauli Accola, Marc Girardelli, Pirmin Zurbriggen. Lui scendeva dai pendii e faceva lo show, gli altri scendevano e basta. Nella docu questo contrasto è ben raccontato da testimoni oculari come Deborah Compagnoni o Gustav Thoeni, molte altre cose te le dice lui, l’Albertone, diventato da qualche anno appassionato di sci alpinismo, quello che si fa grazie alle pelli di foca e op!, ancora sulle montagne, ma questa volta dal basso verso l’alto. Grazie alle teche Rai riviviamo i momenti storici della carriera, le medaglie olimpiche, i tentativi dibattere i rivali polivalenti portati da lui che, invece, si limitava a dominare Speciale e Gigante; si gustano le vittorie strabilianti, quelle in cui si permetteva di festeggiare prima del traguardo (follia!), si assaporano le delusioni, le grandi rimonte, la gioia della gente che «Tomba la Bomba!», si celebra il percorso di uno dei più grandi atleti italiani di tutti i tempi, per qualcuno il primo in assoluto e prova a contraddirlo se ci riesci. Poi, certo, non è semplice comprimere tutto in un’ora e mezzo e, sì, la docu su Schwazer è un’altra cosa (piccolo capolavoro), ma qui ti accontenti di rivivere quei momenti che- botta di retorica- sono anche gli ultimi di un’Italia che poi ha iniziato a leccarsi le ferite. Ah, Alberto, quanto ci hai fatto godere.
 

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