Sergio Castellitto, lezione alla sinistra: "Qual è il vero fascismo"
«Credo che un buon attore quando inizia un film debba sempre sentirsi inadeguato rispetto alla prova che si accinge a fare». Parola di Sergio Castellitto, 70 anni, romano, uno tra i più grandi attori, registi e sceneggiatori italiani. Padre di quattro figli: Pietro, Cesare, Anna e Maria, avuti con la moglie, scrittrice di romanzi di enorme successo, Margaret Mazzantini, alla quale deve una svolta nella sua carriera professionale. Lo scorso ottobre, il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, lo ha nominato presidente del Centro Sperimentale.
Un incarico prestigioso...
«Tutto nasce da un’intuizione di Pupi Avati prima dell’estate. La mia prima risposta fu no».
Perché?
«Non ho mai rivestito incarichi istituzionali».
Ma poi...
«Presi un po’ di giorni per rifletterci e sulla base della competenza e non dell’appartenenza ho pensato che sarebbe potuta essere una cosa molto entusiasmante».
Entusiasmante perché?
«Innanzitutto la materia dei giovani è sempre una materia che ti arricchisce. Lavorare con loro, ma soprattutto per loro, non può che essere un valore aggiunto. Il Centro Sperimentale di Cinematografia è una delle più prestigiose scuole di cinematografia al mondo. Se penso che su quella poltrona ci si è simbolicamente seduto Roberto Rossellini, basterebbe a far tremare i polsi a tutti».
Con che spirito affronta questa nuova esperienza?
«Con preoccupato entusiasmo. Mi pongo l’obiettivo di rafforzare una cosa che il Centro già ha, ovvero uno spirito di identità di questa comunità di artisti, di persone che lavorano a disposizione di una scuola d’arte. E deve rimanere una scuola d’arte. Non è una scuola dell’obbligo. Chi sostiene un esame di ammissione lo fa perché ha un sogno e io voglio rispettare questo sogno».
Qual è la sua funzione al Centro?
«Rintracciare il talento, agitarlo ed aiutarlo. Ma anche smascherare le velleità. Questa la funzione etica ed artistica che mi pongo».
In che senso?
«Fatico a chiamarli dipartimenti i vari settori. Li chiamo ancora reparti perché sono abituato all’artigianato del cinema. Voglio cercare di agitare il talento di tutte le persone che ci lavorano, al di là degli studenti. Questo senso di appartenenza a quel luogo è molto forte. Un luogo dove quando tu entri respiri una storia e questa storia va sempre di più lucidata e alimentata».
Lei era nel cast del film “Enea”, scritto da suo figlio Pietro e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Come è stato farsi dirigere da lui?
«I figli tu li ami per naturale rimbalzo biologico ma non è detto che amare una persona significhi necessariamente stimarla. Accorgersi invece che ammiri il percorso che hanno fatto i tuoi figli è un buon risultato anche per te genitore. Amo molto il modo in cui Pietro è riuscito a rendersi indipendente da due figure, come quella mia e quella di Margaret».
Pensate di essere figure ingombranti?
«Sicuramente significative. Non ingombranti perché ciò che siamo sicuri di avere dato ai nostri figli è il sentimento della libertà».
Cosa intende per libertà?
«Farò l’unica citazione colta di tutta questa intervista».
Prego...
«Kant diceva: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Io credo che in queste poche parole ci sia la visione del mondo e di cosa voglia dire rispondere alla propria coscienza. Io cerco di applicare molto semplicemente questa lezione».
Crede che anche i suoi figli abbiano raccolto questa lezione?
«Quando ti accorgi che i tuoi figli - ognuno con il proprio disordine, che ritengo essere un diritto della giovinezza perché non si può essere spietatamente metodici a venticinque, trent’anni, ma devi avere una visione disordinata quando cerchi una strada -, dicevo, quando i tuoi figli hanno ben chiaro come rispondere alla propria coscienza, puoi dire di aver fatto un buon lavoro».
Lei che figlio è stato?
«Un bravo figlio». (sorride)
Cosa le hanno trasmesso i suoi genitori?
«Ho sempre pensato che fosse più importante imparare dal comportamento dei genitori che dai sermoni. Io provengo da una famiglia dove i sermoni non sono mai stati fatti ma il comportamento è stato l’autentico sentimento che mi ha insegnato i valori fondamentali della vita. Ho un ricordo che mi ha sempre accompagnato nella vita».
Le va di raccontarlo?
«Mia madre era una donna molto semplice, molto umile e al contempo molto intelligente e saggia. Una volta trovai in un cassetto della cucina un bigliettino stropicciato in cui lei aveva segnato una frase che probabilmente aveva ascoltato in qualche trasmissione televisiva. Con la sua calligrafia incerta da donna umile scrisse: “Un uomo gentile non è mai debole”».
La gentilezza è la vera forza e non la violenza che le cronache ci restituiscono giornalmente.
«In un periodo storico come questo dove si parla tanto di violenza contro le donne ti rendi conto di quanto in questa frase ci sia anche il sentimento della fragilità e della inadeguatezza degli uomini rispetto all’inevitabile, naturale, biologica se non culturale superiorità del mondo femminile».
Che rapporto ha con il mondo femminile?
«Ho avuto la fortuna di incontrare una donna, Margaret, con la quale abbiamo da sempre avuto un rapporto profondamente paritario. Questo il grande problema del mondo d’oggi. Non percepire questa parità».
È ciò che scatena la violenza degli uomini nei confronti delle donne?
«Sì, tutto nasce dal profondo senso di inadeguatezza di noi uomini rispetto alla naturale intelligenza delle donne. Sia ben chiaro, non lo dico in termini femministi perché rivendico anche il diritto di dire che ho incontrato delle donne straordinarie ma anche delle donne insopportabili».
Nei confronti di sua moglie nutre anche una grande stima professionale visto che spesso porta al cinema film tratti dai suoi romanzi...
«Non avrei fatto il regista se Margaret non avesse scritto quei libri».
Quindi è grazie a lei che è andato dietro la macchina da presa?
«Avrei potuto fare l’attore tutta la vita ma leggendo i libri di Margaret mi si è aperto un mondo. “Non ti muovere” è stato il romanzo della svolta.
Faceva tremare i polsi pensare di portare questo enorme successo letterario al cinema. Parlo non solo di successo nel numero di copie vendute ma successo nella psiche delle persone».
Ci spieghi meglio
«Un romanzo che racconta dell’inadeguatezza di un uomo che non sa accettare l’amore se non attraverso la violenza».
Cosa disse Margaret quando le ha confidato di volerne fare un film?
«Lei si rifiutò di scrivere la sceneggiatura. Mi regalò una copia del libro e mi disse: “Strappa le pagine che non ti interessano e fai quello che vuoi. Il mio lavoro è finito nel libro, adesso comincia il tuo”».
Si può dire che è stato il libro della svolta?
«Sì, da quello è nato il mio desiderio di raccontare. Dietro le parole di un libro ci sono immagini che vanno dissotterrate».
Dica la verità . Fare l’attore era il suo sogno da bambino?
«Assolutamente no. Non avevo nessuna vocazione artistica, anzi, avevo una sana ritrosia generale. Ho lavorato un paio di anni in un’azienda e casualmente ho incontrato dei ragazzi che frequentavano l’accademia di arte drammatica e mi accodai a loro. Da giovani si ha il desiderio di rompere vetri, io ho rotto quello della creatività. L’amore per questo lavoro l’ho scoperto facendolo».
C’è un film a cui si sente particolarmente legato?
«A parte i film con Giuseppe Tornatore e Marco Bellocchio, sono legato a tutte le grandi fiction che ho fatto. Da Ferrari a Padre Pio a Don Milani...».
Un attore di fiction o cinema era visto con un certo pregiudizio rispetto agli attori di teatro o sbaglio?
«Questo pregiudizio c’è sempre stato. Quella puzza sotto il naso di chi diceva che il teatro fosse meglio del cinema e che il cinema fosse meglio della televisione. L’attore di teatro era l’attore nobile. Io che non sono mai stato vittima di questo luogo comune ho sempre pensato che l’unica cosa che contasse era la qualità di quello che facevi».
Lei ha interpretato tantissimi ruoli. Con quale stato d’animo inizia ogni nuovo film?
«Con il senso di inadeguatezza. Credo che un buon attore quando inizia un film debba sempre sentirsi inadeguato rispetto alla prova che si accinge a fare. C’era un grande regista cecoslovacco con il quale feci “Tre sorelle di Cechov” in teatro che diceva...».
Si era ripromesso di fare una sola citazione nell’intervista o sbaglio?
«Ha ragione». (Sorride)
Cosa diceva il regista cecoslovacco?
«“Voi attori fatevi venire sempre una seconda idea perché la prima è già venuta in mente a qualcun altro”».
Il famoso piano B...
«Questa se la dovrebbero ripetere politici, giornalisti, tutti. Siamo abituati a mettere in pratica quello di cui siamo certi però una cosa nuova la scopri solo se metti in discussione la tua esperienza, cercando di tornare ogni volta un po’ studente. Ecco il senso di inadeguatezza di cui parlavo prima».
Cosa pensa del politicamente corretto e della cancel culture?
«Quello per me è il vero fascismo».