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Enzo Jannacci, il futurista della musica italiana: le rivelazioni nel docu-film

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Marco Rocchi
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Il genio più genio di tutti, Enzo Jannacci, è sbarcato su Netflix. La voce del cantautore risuona, dieci anni dopo la sua dipartita fisica, grazie al docufilm firmato da Giorgio Verdelli e uscito in questi giorni sulla piattaforma dopo il successo di pubblico al botteghino e la standing ovation ottenuta a fine estate all’80ª Mostra del Cinema di Venezia. A parlare, sorprendentemente, è lo stesso Jannacci, grazie a un’intervista rimasta inedita del 2005, trasformata per l’occasione nella voce narrante del docufilm.

Un percorso tra parole e luoghi che hanno dato vita al romanzo popolare e surreale al tempo stesso nel quale, a suon di musica, Jannacci ha scritto e cantato la sua vita lungo tutta la sua carriera di cantautore. Un’epopea «di guerre, serpenti, prepotenti» che è la quotidianità «brutta, bella, puttana» e i geni come Jannacci sanno trasformare in arte. Tutto in un’unica storia riuscita a diventare una storia unica, sebbene chi l’ha vissuta o in parte condivisa riesca a narrarla con la scanzonata semplicità che si riserva ai ricordi migliori, di solito lieti.

Questo e molto altro è Enzo Jannacci- Vengo anch’io, titolo che potrebbe da un lato sembrare semplicemente lo scontato richiamo a uno dei suoi brani più famosi ma che in realtà è un richiamo alla presenza di un artista che, a ben vedere, non se n’è mai davvero andato. A testimoniarlo il pianoforte delicato del figlio Paolo che ne incarna l’eredità in una somiglianza e una profondità artistica, da jazzista, capace di farsi essenzialità e sottrazione, proprio nel punto medesimo in cui papà Enzo magari strabordava nel sarcasmo e nell’ironia. Eppure i due hanno pressoché la stessa faccia, amano entrambi la musica e condividono i luoghi nei quali Jannacci ha dato vita al suo movimento.

Artistico in primis, certamente, ma anche sociale, nella capacità mirabile di cantare tutte le diversità, in molti casi anche le ingiustizie, alternando lacrime e sorrisi a modo suo, senza mai lasciarti capire prima il punto preciso in cui sarebbe andato a parare.

I TESTIMONI
Come testimonia con ammirazione Roberto Vecchioni a bordo di un tram storico con i sedili in legno, custodi di chissà quanta Storia e storie piccole e grandi, quante “scarpe del tennis” che a bordo hanno attraversato mille volte Milano. Una carriera iniziata, agli albori, nei localini, con Tenco e Gaber a formare i Rock Boys di Celentano. Un intreccio di future vicende artistiche che confondevano le radici in una città che ora capiva, ora no, mentre il sodalizio tra i due geni (Jannacci e Gaber) scomparsi poi a dieci anni esatti di distanza l’uno dall’altro, è continuato per sempre. E oggi va avanti nelle parole degli eredi che grazie al cielo non riescono a fare a meno dell’arte dei loro padri. Tra le testimonianze quelle dei grandi milanesi: da Abatantuono a Cochi & Renato che lo appellano di tanto in tanto maestro ma prima ancora, semplicemente, amico. 

Il tutto in un un ritratto unico e appassionato che riesce a riportare alla luce le mille sfumature di un mito che continua a sorprendere ed affascinare con la sua cifra unica, stralunata, addirittura rock. Almeno a giudicare dalle parole di un altro ospite d’eccezione nel docufilm: Vasco Rossi. Cresciuto pure lui con le canzoni di Jannacci «che forse si ritrovano nei miei primi pezzi ancor più di quanto si possa ritrovare Elvis Presley» sorride il Blasco, confermando (se mai ce ne fosse bisogno) la trasversalità naturale di artisti che hanno reso immensa la musica italiana, cibandosi di una tradizione trasformata in magia. Da ridere, da piangere, da vivere. Ma soprattutto da cantare.

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