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Da Sanremo a We are the world: il potere della musica celebrato all'Ariston

Francesco Specchia
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Qual è (se c’è) il nesso fra gli orecchini di Cindy Lauper che sfrigolano come in una gabbia di Faraday davanti al microfono in registrazione e Giovanni Allevi che rientrando dalla malattia rende un’immensa, gioiosa gabbia di Faraday d’umanità un palco di canzonette?

Cosa intreccia la crisi di timidezza di Bob Dylan che implora di cantare la sua strofa chiedendo che tutti i colleghi escano dallo studio di registrazione e l’eccesso di entusiasmo di Amadeus che vorrebbe tutti dentro l’Ariston, compresi i trattori e la mucca Ercolina? Quali analogie passano tra Stevie Wonder che aiuta Ray Charles (entrambi ciechi) a raggiungere il bagno degli uomini e le centinaia di cronisti prigionieri nella sala stampa sanremese, che mai troveranno alla toilette la loro star preferita? Che cosa hanno in comune il Festival di Sanremo, campione di audience su Raiuno nelle sue notti magiche, e We are the world: la notte che ha cambiato il pop (titolo originale: The greatest night in pop) il documentario di Bao Nguyen, primo in classica Netflix in Italia e nel mondo, che racconta le prove, le registrazioni e la realizzazione di una canzone famosa, «nell’arco di tempo che va dalla mezzanotte di un giorno del gennaio del 1985 fino all’alba del mattino dopo, sotto la guida di Quincy Jones e Lionel Richie»? Sono entrambi prodotti fenomenali.

 

UGUAGLIANZA TRA STELLE

Che non soltanto sviluppano un ascolto trasversale - e recuperano in modo inaspettato la fascia commerciale 18/35 anni, laddove il target sarebbe in teoria abbondantemente over 50 - ma pure inviano messaggi nello straordinario codice Morse della musica pop. Non è un caso che frotte di ragazzini, in questi giorni di musica a palla, scanalino tra la tv di Stato e la piattaforma planetaria, alternando il palco del Festival alle immagini inedite dell’A&M Studio di Los Angeles.

E l’elemento che attraversa i due eventi è sia il senso di uguaglianza tra star consolidate e aspiranti tali, sia l’incredibile monito di lasciare il proprio ego fuori dalla porta, «Check your ego at the door». E, infatti nel caso di We are The World Prince, l’allora divo assoluto che aveva preteso di schitarrare da solo verrà lasciato a casa: è ciò che Quincy Jones richiamava saggiamente a memento di «una missione più alta», a cui tutti aderiscono con un sorriso sciamanico e, soprattutto, facendolo gratis. E, per una volta, la buona causa della fame del mondo qui non è soltanto una strategia di marketing.
E, a visionare codeste immagini così sfocate e così deliziosamente anni 80, bè, ti salta in spalla la scimmia della nostalgia.

 

IL TOP DEL POP

C’era, lì dentro, il top del top del pop. Stevie Wonder, Bob Dylan, Cyndi Lauper, Bruce Springsteen, Paul Simon, Ray Charles, Michael Jackson e famiglia, Steve Perry dei Journey, Diana Ross, Tina Turner, Dan Aykroyd, Harry Belafonte omaggiato di un corale Banana Boat, Dionne Warwick, James Ingram, Al Jarreau, Daryl Hall, Huey Lewis (che sostituisce Prince), Kim Carnes e altri ancora per un totale di 47 artisti. C’è Wonder che convince Dylan a cantare, imitandolo.

C’è Al Jarreau, sudi giri dopo la serata agli AMA, che proprio non riesce ad azzeccare l’assolo a causa del troppo vino, «voleva festeggiare prima». C’è Lionel Richie che si ritrova a comporre musica e testo di We are the World nella villa-zoo di Michael Jackson in mezzo a uccelli, scimmie e a un pitone che gli si butta addosso. C’è Diana Ross che, al mattino piange perché «vorrei che tutto questo non finisse mai». E, da Sanremo, Amadeus e Fiorello, che su quella registrazione leggendaria crebbero belli e forti, fanno l’ideale controcanto. Per i più attempatelli della loro generazione, certo; ma pure per i giovanissimi di quelle successive. La beneficenza e il senso della tradizione, l’uguaglianza tra artisti senza il carico del narcisismo da popstar, le canzoni che fanno da sottofondo al quotidiano. E mettiamoci anche l’effetto-catarsi per gli utenti più giovani, dalla preadolescenza in su. Andrea Montesano, psicologo, ma anche chitarrista nel suo libro La psicologia del rock. Crescere con la musica in adolescenza (edizioni Alpes) scrive che le note tornano ad essere «un ansiolitico naturale, ascoltare musica per i ragazzi vuol dire indursi in uno stato di calma e relax per gestire le difficoltà evolutive con cui ogni adolescente ha da combattere: il corpo che cambia, la relazione a volte conflittuale con i genitori, e la vita scolastica che spesso occupa più del 50% della quotidianità». Verissimo. La musica torna ad essere l’atto primigenio, il latore di mille messaggi, la chiave di mille mondi. «Il rock non eliminerà i tuoi problemi. Ma ti permetterà di ballarci sopra», mi ha detto mio figlio rockettaro di anni 12. Citava Peter Townshend degli Who, ma oggi poteva tranquillamente essere Roberto Sergio, l’ad di questa Rai... 

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