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Ghali e Dargen, se due cantanti diventano filosofi e i monologhi lotta alla censura

Gianluigi Paragone
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Il successo di una trasmissione o di un evento non si testa solo sui risultati immediati ma dalla durata della sua curva di interesse: il Festival sta centrando entrambi gli obiettivi. Se l’eco della kermesse regge così forte significa che attorno c’è un vuoto culturale spaventoso, così bastano due rapper per creare un cortocircuito. A tenere banco sono due polemiche e mezzo: le polemiche piene riguardano la “questione Napoli” e la guerra a Gaza; la mezza polemica invece è il solito ritornello sul controllo della Rai da parte di chi governa. Si tratta di una polemica che ci porteremo sulle spalle fintanto che il governo, attraverso il Tesoro, sceglierà i vertici aziendali così come le nomine escono da intese e accordi di tipo politico tra maggioranza e opposizione. Lo abbiamo scritto più volte: il Pd è dentro la struttura Rai a prescindere che sia al governo oppure no, poiché conta su una rete di risorse umane interne all’azienda e ancor più fuori dove si pescano società di produzione, autori, protagonisti necessari per assembleare i programmi. Quanto agli altri partiti, la rete si compone a seconda della forza elettorale del momento. Ma non basta affatto per dettare il passo. In poche parole, non c’è alcuna TeleMeloni e tanto meno non è stato un Festival “governativo” come il solito gruppo Repubblica/Stampa scrive.

Diverso è il discorso che riguarda i linguaggi “della” e “nella” televisione; e allora la domanda è se la Rai, tv pubblica, riesca a creare un suo linguaggio. Tengono banco gli interventi di Ghali e di Dargen D’Amico, il primo sullo “stop al genocidio”, il secondo sia sulla guerra sia sull’immigrazione. Dopo il Festival, è stata Domenica In a fare da spin off dell’Ariston prolungando sia i brani sia le polemiche appunto. È nella trasmissione di Mara Venier che sarebbe avvenuto il fattaccio della... censura. La censura, stando ai verbali dei custodi della democrazia (ossia Repubblica, La Stampa e compagnia varia), consisterebbe nella interruzione da parte della Venier di una risposta che stava dando il rapper D’Amico a una domanda del giornalista.

 

 

Se una parola pesante come “censura” viene scomodata con tanta leggerezza stiamo freschi: la Venier aveva il sacrosanto diritto di riprendersi il microfono - come i conduttori fanno regolarmente - e dire quello che a casa la gente stava pensando: siete solo dei cantanti, suvvia. A riprova di ciò cito un sondaggio della Ghisleri pubblicato dalla Stampa lunedì: il 51,4% degli intervistati non vuole che al Festival si affrontino temi politici o altro rispetto alla musica; il 76,3% tra i giovani sotto i 26 anni! Come a dire: se avete delle cose da dire, mettetele in musica. Se davvero pensiamo che il tema della guerra o il tema delle migrazioni possa essere banalizzato così, come se tutto fosse un ritornello, un post o una storia per i social allora siamo messi male. La situazione è grave ma non è seria se Ghali o D’Amico diventano - e lo dico con tutto il rispetto- i pensatori di riferimento. La Venier nello stoppare il cantante ha solo misurato il contesto per il peso reale, al netto del doping sanremese che gonfia tutto oltre la reale misura delle cose. È sconcertante - ma è sintomatico di questi tempi - che si parli di censura su queste cose, quando fior di gente molto più strutturata non ha diritto di parola per presentare punti di vista diversi su temi di grande attualità.

 

 

 

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