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Alberto Salerno su Mahmood: "Mi piace ma si capisce poco"

Daniele Priori
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Quasi mezzo secolo di musica e parole. Dischi prodotti e canzoni scritte. Quattro festival di Sanremo vinti assieme agli Homo Sapiens con un brano come Bella da morire nel 1977, a Eros Ramazzotti nel 1984 con Terra promessa e poi nel 1999 con Anna Oxa e la bellissima Senza pietà fino al 2003 quando con Alexia torna a trionfare all’Ariston con Per dire di no. Questo e molto altro è Alberto Salerno, un pezzo di storia della musica leggera e della discografia. Nato a Milano il penultimo giorno del 1949, figlio d’arte, suo padre era Nicola Salerno, il grande Nisa, «un napoletano che nonostante quarant’anni a Milano non ha mai perso il dialetto della sua città che gli veniva fuori proprio naturale...» ci racconta Alberto, lo aveva fatto crescere a pane e Carosone. Parliamo infatti del paroliere autore dei testi di brani iconici come Torero e Tu vuo’ fa l’americano.

Però, Maestro, un’altra icona adesso vive accanto a lei. È Mara Maionchi. Le pongo la domanda che di solito si fa alle donne: cosa prova ad essere riconosciuto come il marito di...Specie dopo una carriera luminosa come la sua?
«L’unica cosa fastidiosa che però mi fa anche ridere è quando mi chiamano signor Maionchi. Mi è capitato tre o quattro volte. Ho risposto che ho anche io un mio un cognome... (sorride) Diciamo che abbiamo superato da quel dì questi problemi che sono abbastanza stupidi».

 

 

 

Arrivando subito all’attualità. Sui social lei ha dato ragione a Drupi, citando anche Madame oltre a Mahmood tra i cantanti che si capiscono poco...Sta nascendo un caso?
«Partiamo dal presupposto che a me Mahmood e Madame piacciono, Madame mi fa proprio impazzire. Vedo, però, che hanno testi molto ermetici. Secondo me il testo di una canzone non dovrebbe essere spiegato. Questo è sempre stato lo scopo delle canzoni come le scrivevamo noi boomer, come si dice oggi. Può darsi sia in realtà proprio il punto di frattura tra la generazione dei vecchi, noi che scrivevamo canzoni di un certo tipo e queste nuove canzoni che sono, secondo me, un pochino complicate da comprendere. Tutto qui. Ma è un mio problema non di chi le fa. E poi va anche detto che i cantanti si mangiano un po’ le parole... La pronuncia è fondamentale. Il testo andrebbe cantato facendo capire le vocali e le consonanti».

Diciamo che anche una delle più grandi interpreti delle sue canzoni, Anna Oxa, è abbastanza famosa per avere una pronuncia talora difficilmente comprensibile...
«È vero. Però ad Anna è capitato soprattutto nel disco che ha fatto con me (Senza pietà il cui singolo omonimo vinse Sanremo 1999 ndr) nel quale c’era oggettivamente un problema di intelligibilità. Però Anna va amata al di là di tutto. È un artista che adoro e con la quale, quando abbiamo lavorato insieme, mi sono trovato molto molto bene».

Mogol in una intervista di qualche mese fa ci ha spiegato perché non gli piace essere chiamato paroliere. A lei piace questa definizione?
«No. Non mi piace. Anzi quando la sento mi chiedo perché i musicisti non li chiamano musichieri? Non è che un termine può limitare la potenza creativa di un autore. La Siae si chiama così perché è la società degli autori e degli editori. Noi siamo autori così come i musicisti».

Non siete poeti, dunque...
«No. Il poeta fa un altro mestiere. Battisti in qualche intervista, anche scherzosamente, chiamava Mogol “il poeta”. Però sinceramente il poeta fa le poesie che sono ben altra roba rispetto ai testi delle canzoni che hanno determinate caratteristiche».

A proposito di musica e parole, lei eredita il suo mestiere da suo padre. Ha qualche ricordo particolare di Carosone con cui proprio suo papà ha scritto i brani più famosi?
«Il ricordo più lontano risale a quando avevo 9 anni. Mio padre mi portò con lui nello studio in cui c’era Renato Carosone che stava registrando Torero con tutto il suo complesso. E poi il batterista Gegè Di Giacomo fece per me un piccolo show con bacchette e bicchieri, picchiandole alla fine sulla mia testa. Fu molto carino. Poi rividi Carosone quando partecipò a Sanremo, prodotto da Claudio Mattone (nel 1989 con ‘Na canzuncella doce doce ndr). Andai a salutarlo molto emozionato perché insomma Carosone era Carosone, non è che si scherzava».

 

 

 

Che rapporto c’è tra un cantante e chi gli mette in bocca le parole?
«Io ho sempre cercato di scrivere lavorando come se fossi un sarto, su misura. Quando ho scritto per la Oxa diventavo la Oxa. Quando ho scritto per Mango o per Ramazzotti diventavo Mango o Ramazzotti. Mantenendo le mie prerogative di stile e di idee, ho sempre cercato di adattarmi a quella che era la personalità dell’artista rappresentando tutti stili e mondi diversi. Lo stesso capitò anche con Alexia».

Tra i tanti artisti coi quali ha collaborato ce n’è qualcuno che sente più vicino?
«Mi sono sentito vicinissimo a Mango. Con Pino si era creato una specie di legame spirituale. Non lavoravamo solo assieme. Eravamo anche amici. Il nostro rapporto andava oltre il mero rapporto professionale. Con Pino condividevamo molti problemi. Sono stato anche un suo consigliere riguardo a talune scelte professionali. Ci siamo frequentati poi anche con le famiglie. Ricordo che lui veniva a casa nostra a mangiare. Purtroppo è finito perché lui se n’è andato via davvero troppo presto...».

È chiaro quindi che conosce da sempre anche Angelina Mango. Con che profilo umano e artistico è cresciuta questa ragazza?
«Con due genitori così... Papà e mamma due cantanti fantastici. Tutti parlano di Pino Mango ma dimenticano spesso quanto è brava Laura Valente, davvero formidabile. Ha sostituito alla grande Antonella Ruggero dei Matia Bazar. Angelina ha avuto due esempi eccezionali però non la sento condizionata dalle voci del papà e della mamma».

Cosa pensa della tristezza che in alcuni casi sfocia nella depressione di artisti anche giovanissimi come Sangiovanni o Mr Rain confessano un disagio così profondo?
«Io credo vi sia un disagio giovanile generale. I cantanti lo esprimono più platealmente perché fanno un lavoro nel quale escono nel giro di un anno. Anche Ramazzotti con Terra promessa è uscito a 22 anni ma tutto era meno concitato. C’era tempo di metabolizzare il successo e capitalizzarlo. Qui mi sembra invece ormai ci sia una rincorsa. È vero quello che ha detto Mr Rain. Ci troviamo di fronte a un mercato fagocitato dall’isteria. Escono in continuazione nuove proposte. Ma così è un massacro di fronte al quale non rimane poi niente. Quello di oggi è un mercato nel quale io non sarei più capace di lavorare».

E della sfilata di addii annunciati cosa pensa? C’è un’età per andare in pensione anche dalla musica?
«Ci dovrebbe essere. Per fare queste grandi tournée ci vuole un’energia pazzesca, fisica e psicologica. Tozzi ha fatto benissimo. Non ho molto capito Baglioni che l’ha dichiarato tre anni prima. Credo però sia giusto anche finire... È finito un periodo, poi arrivano gli altri».

C’è una canzone che non ha scritto lei ma avrebbe voluto scrivere?
«Ce ne sono 8mila ma Io che amo solo te di Sergio Endrigo è la più bella canzone italiana che sia mai stata scritta. Endrigo è un artista che andrebbe onorato di più. Io farei uno spettacolo all’anno dedicato solo alle sue canzoni».

 

 

 

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