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CCCP a Bologna, il Ferretti che si era inabissato è riemerso: un grande (e unico) animale da musica

Fausto Carioti
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C'erano dubbi sulla «cellula dormiente risvegliata al presente»? Certo che c'erano. Enormi. I CCCP non salivano su un palco vero dall’alba dei tempi. Si erano sciolti il 3 ottobre del 1990, finiti assieme al Muro di Berlino. E aveva perfettamente senso, perché i due fondatori, Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, è lì, in una discoteca di Kreuzberg, che si erano conosciuti («Accordi secchi e tesi segnalano il tuo ingresso nella mia memoria»). Storie individuali che si intrecciano con la Storia. E no, i CSI, nati dalle ceneri dei CCCP, non erano i CSI con altro nome: lì dentro c'erano metà dei Litfiba e facevano un'altra musica.

Dubbi enormi, quindi. Perché i tre concerti fatti a fine febbraio a Berlino (sempre lì) avevano il sapore artigianale di una reunion tra amici. Bello l’artigianato, ma un tour che inizia a piazza Maggiore a Bologna e ti porta in giro per tutta Italia richiede solidità industriale. Figuriamoci se ti chiami CCCP e nel 1984 raccontavi a Pier Vittorio Tondelli che «all’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica l’acciaio».

Solidità, e non basta. Ogni rock band (ma vale anche se fai musica melodica emiliana e punk filosovietico) si regge sul frontman. Ecco, il vero nodo della faccenda: che ne è di Ferretti? Con tutto il rispetto per la chitarra grattugiata di Zamboni, per il ballerino guitto Fatur e la benemerita soubrette Annarella, la variabile su cui tutto si gioca è lui. Cosa è diventato in questi anni? Il migliore paroliere italiano (paroliere nel senso di utilizzatore di parole, nelle canzoni e nei libri e nel normale conversare: GLF non ne butta mai una a caso, nessuna sua parola può essere sostituita da un'altra) sa ancora stare sul palco? L’unico cantante ratzingeriano del pianeta, dopo la seconda metà della vita trascorsa a Cerreto Alpi ad assistere la madre malata, accudire cavalli e scrivere libri bellissimi e sempre più lontani dallo spirito del tempo (l’ultimo è “Óra. Difendi conserva prega”, per capirsi), ha ancora il carisma e la hubris necessari?

Quando sale sul palco di Bologna, alle 21 e 20, forse non lo sa nemmeno lui, ammesso che si ponga il problema (a naso, no). La prima mezz'ora del concerto non scioglie il dubbio. Sembra il seguito dei tre concerti di Berlino: comodo, ma, come dire, poca soddisfazione (è una frase sua). “Depressione caspica”, “Morire” e “Oh! Battagliero” scivolano via come pura operazione nostalgia. Che va benissimo, per carità: c'è un esercito di cinquanta-sessantenni che si veste come negli anni Ottanta, vede sequel di film degli anni Ottanta e ascolta musica degli anni Ottanta: nulla di male a farlo anche dal vivo, cantata dalle stesse voci di allora, solo un po’ più stanche.

Poi, però succede qualcosa. Non all'improvviso, lo si capisce quando lì, ai piedi della chiesa di San Petronio, il salmodiante canta “Libera me domine” e “Madre”, che sarebbe la Madonna (i comunistelli bolognesi poco prima avevano gridato più volte “Palestina libera”, lui li ignora e intona la messa in latino, e quelli zitti ad ascoltarlo: un momento di rara bellezza). 

Fatto sta che quando le preghiere finiscono c'è un Ferretti sicuro di sé e padrone della scena. Non è mestiere, perché non lo ha fatto per decenni, e il mestiere lo perdi se non lo eserciti. È qualcosa di più profondo, che nemmeno un lungo letargo può toglierti. Talento, nel senso dei talenti distribuiti dal Signore: lui ha avuto quello del paroliere e quello del cantore ieratico, tanta roba. 

Non salta, non si scalmana: non ne ha bisogno. Usa le parole delle canzoni e la presenza, senza nulla concedere alle frasi facili e agli slogan acchiappagonzi. Uno che da anni ripete «Non sono come tu mi vuoi» ai fan che non gli perdonano di aver votato per Giorgia Meloni, figuriamoci se cerca la tua condiscendenza perché gli hai comprato il biglietto. 

Ne esce una versione di “Emilia Paranoica” che te la ricordi tra vent’anni, “Annarella” («Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così, non dire una parola che non sia d’amore») fatta col solo accompagnamento di chitarra dà la pelle d'oca, “Amandoti” (è sua, non di Gianna Nannini) la canta tutta la piazza, pare la curva della Spal Ferrara che l'ha scelta come inno (una canzone d’amore così bella che diventa coro da stadio: mica solo gli inglesi). E il motore del concerto (le luci, il suono, quello che viene inscenato sul palco) pare già rodato, pronto per Milano e le piazze che seguiranno. La messa cantata si scioglie in un grande rito pagano, potente come solo i grandi concerti rock sanno essere, col suo sacerdote al centro.

Il Ferretti che si era inabissato è riemerso, ora e qui c’è un grande animale da musica e nulla che gli assomigli. È un errore nella matrice, un’anomalia spaziotemporale nell’epoca stolta di TikTok, ed è un'emozione indefinibile.
 

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