Modi garbati (salutava i telespettatori con un elegante «salve»), linguaggio chiaro e diretto (indimenticabile la frase: «La domanda sorge spontanea»), sguardo rassicurante dietro un paio di occhialoni ben visibili, Antonio Lubrano- con la storica trasmissione “Mi manda Lubrano” su Rai2 - entrava nelle nostre case con discrezione. Ma poi graffiava e lasciava il segno, difendendo con tenacia e fermezza i diritti dei cittadini dopo aver smascherato i furbetti e i truffatori d’Italia. Giornalista amato da tutti, Lubrano ora ha 93 anni, vive a Milano e si racconta. Con gli stessi modi garbati di un tempo. Con un linguaggio chiaro e diretto. Con lo sguardo rassicurante.
Buongiorno, Antonio Lubrano. Anzi “salve”, come diceva sempre lei in tv.
«Lo trovo più simpatico come saluto, mi è sempre piaciuto. E poi va bene per qualsiasi orario della giornata».
Convenevoli a parte, complimenti per l’eleganza.
«Mi preparo perla passeggiata quotidiana, per me imperdibile: è un appuntamento fondamentale che porta via un po’ di tempo. Uno dei guai della vecchiaia sa quale è? Che spesso non si sa cosa fare e ci si annoia».
Dove va di solito?
«Non ho una meta precisa, giro e faccio incontri interessanti soprattutto nel parco qui vicino. Nella vita non si finisce mai di imparare, di conoscere, di confrontarsi. E io continuo a essere curioso».
La curiosità del giornalista.
«Quella non sparirà mai».
E la gente, quando la riconosce, cosa le chiede?
«La domanda più frequente è cosa ne penso dell’aumento dei prezzi: i cittadini temono sempre di essere fregati. E poi mi chiedono commenti sui fatti del giorno, sull’attualità, sulla cronaca che sia nera o bianca».
Quindi lei è aggiornatissimo.
«Leggo un quotidiano al giorno, ma se c’è qualche evento particolare ne prendo di più per avere una visione dei fatti ampia ed equilibrata. Poi guardo volentieri la tv».
E la condivide la televisione di adesso?
«Mi piace in quanto tale. Trovo discutibile il modo in cui viene fatta, vero, ma ho gusti e curiosità differenti e sarebbe presuntuoso stabilire se questa è meglio o peggio di quella che facevo io».
C’è qualche programma più interessante di altri?
«La cronaca nera è ben seguita, questo ritorno alla cronaca pura trovo che sia un fatto positivo perché porta la gente ad essere più attenta a ciò che la circonda. Più consapevole. Qui a Milano, che è diventata la mia città, succede di frequente».
A proposito, ma a Napoli ci torna ancora?
«Ogni tanto e molto volentieri. Ho imparato molto da Procida, la mia terra di origine: l’isola ti insegna l’amore per la libertà e ad essere indipendenti».
Torniamoci insieme, allora, al piccolo Antonio.
«Nasco il 4 febbraio 1932, mia madre Clotilde fa la casalinga, papà Giuseppe è capitano di lungo corso, uno dei vecchi uomini di mare che gira il mondo con le navi mercantili. Ed è richiestissimo».
In realtà il vostro cognome non è semplicemente Lubrano.
«È doppio: Lubrano di Scampamorte. Mai capito veramente come nasce. Forse dal fatto che papà e nonno, anche lui navigatore, erano scampati a più naufragi, forse semplicemente perché indica una caratteristica di longevità della mia famiglia».
Comunque il nome Scampamorte è benaugurante, il che non guasta. Perché sorride?
«Una volta, a un premio letterario, incontro Vittorio Sgarbi. Mi guarda stupito: “Lubrano, ma tu non eri morto?”. E io: “No, sono immortale in ossequio al mio cognome”».
Meraviglioso. Sgarbi le sta simpatico?
«Molto, lo trovo di un’intelligenza superiore alla media».
Torniamo a lei, al piccolo Antonio Lubrano. Figlio unico?
«Ho tre sorelle e io sono il secondo».
Bambino timido?
«Vivace, con grande voglia di imparare e conoscere».
La guerra la ricorda?
«Per bombardare Napoli le squadriglie aeree passano sopra Procida e sono sempre momenti di paura, di preoccupazione. E poi sono indimenticabili i racconti di mio padre, che naviga anche in quel periodo e ogni volta che torna a casa è una gioia: è di poche parole, ma le sue storie di vita ci affascinano».
Scuole?
«Liceo classico Gian Battista Vico a Napoli, fondamentale perla mia preparazione. I professori hanno stima in me e quello di italiano, quando corregge i temi in classe, legge sempre il mio davanti a tutti, facendomi capire che scrivo bene. Poi mi iscrivo a Giurisprudenza, ma l’università non la finisco».
Come arriva la passione per il giornalismo?
«Vorrei girare il mondo come papà e tutti i miei avi, ma lui me lo impedisce per evitare che soffra quanto ha sofferto lui. Allora lo sfido: “Dopo il liceo faccio il giornalista”».
Quasi una minaccia. E mantiene la promessa fatta.
«In quel periodo ho un rapporto epistolare con uno zio, console italiano a Gibilterra, gli spiego della mia ambizione e lui mi segnala ad Antonio Ravel, redattore de “Il Giornale” di Napoli».
E a 18 anni si presenta in redazione.
«Mi dicono: “Sei sicuro? Guarda che è un lavoro duro. Vieni ogni notte in tipografia, così inizierai a conoscerlo”».
Per quanto tempo lo fa?
«Due anni. Di notte in tipografia e di giorno a lavorare in un ufficio di spedizioni. Ma è una scuola fondamentale, imparo la professione. E quando, poco dopo, a Napoli apre un nuovo quotidiano monarchico, è lo stesso Ravel a raccomandarmi».
Primo articolo?
«Un servizio di cronaca nera su un furto in un’orologeria. Il giorno in cui viene pubblicato torno a casa e vedo mio padre commosso, che piange per la soddisfazione. E lo fa quasi di nascosto, atteggiamento tipico degli uomini di mare che non ostentano i sentimenti».
È l’inizio di una carriera sempre in crescendo e...
«...sa cosa mi ha sempre aiutato fin dai tempi della scuola? La simpatia che riscuotevo come persona, a pelle. È stata una grande facilitazione in tutte le sfide, professionali e non, che ho affrontato».
Vero. Continuiamo: lei diventa professionista nel 1957, a soli 25 anni, e a 35 anni è già direttore del settimanale “TV Sorrisi e canzoni”.
«Esperienza bellissima che ricordo con orgoglio, perché dirigere un giornale apre gli orizzonti. E io l’ho fatto cercando di trattare con equilibrio tutti i divi del mondo dello spettacolo di quel periodo, senza mostrare benevolenze particolari per l’uno o per l’altro».
Dalla carta stampata, negli Anni’ 70, lei passa prima alla radio grazie a Luciano Rispoli, e poi alla televisione.
«Vengo assunto in Rai, al Tg2, dal direttore di quel momento, Andrea Barbato. Vista la mia esperienza a “TV Sorrisi e canzoni” mi mettono inizialmente in cultura, dove preparo servizi veloci utilizzando un linguaggio semplice, leggero, divertente. Ad un certo punto, però, mi chiedono di passare alla politica: io non ne so nulla, ma è proprio quello che vogliono. E diventa la mia fortuna».
Perché?
«Intervisto i grandi politici della prima Repubblica da Andreotti a Craxi, da Fanfani a Spadolini - ponendo domande da uomo della strada e obbligandoli a non esprimersi più in “politichese”, ma con un linguaggio capibile a tutti. Quando parlano, parlano, parlano senza in realtà dire niente io ho il coraggio di fermarli: “Onorevole, non si capisce nulla. Ora traduca”».
Storica un’intervista ad Andreotti mentre gli tagliano la barba.
«È il 1984 e mi riceve nel suo studio. È un uomo di grande intelligenza e spiccato umorismo: mentre dialoghiamo, ad un certo punto, il barbiere della camera inizia a raderlo, con un rasoio a serramanico, partendo dalla gola. Io gli chiedo: “Onorevole, possiamo provare a immaginare quanti dei suoi nemici in questo momento invidiano il suo barbiere?”. E lui, prontissimo: “Beh, se dovessero farmi la barba loro, userei il rasoio elettrico”».
I politici di oggi non sono paragonabili a quelli di quel periodo, vero?
«Guardi, quelli attuali quasi non li conosco nemmeno. La verità è che non hanno spessore, non mi suscitano proprio nessun interesse».
Le sue interviste funzionano, l’audience schizza alle stelle.
«E nel 1987 il direttore Antonio La Volpe mi affida una rubrica di un minuto, in coda al Tg delle 13, intitolata “Diogene”. L’obiettivo è entrare nelle famiglie, affrontare i problemi della gente comune, apparire come uno di loro: per provarci decido di andare in onda con un maglione, anziché con la solita giacca e cravatta. E funziona: grazie a “Diogene” il Tg2 passa da due milioni e mezzo a tre milioni e mezzo di telespettatori».
Tanto che viene notato da Angelo Guglielmi, direttore di Rai3, il quale nel 1990 le affida un nuovo programma.
«L’autrice è Anna Tortora, sorella di Enzo: l’idea è di fare una trasmissione contro le truffe, i furbi e i furbetti».
Nasce così “Mi manda Lubrano”.
«All’inizio il fatto di avere il cognome nel titolo non mi convince, mi sembra un azzardo, ma Guglielmi mi persuade spiegando che è una forma di garanzia per il pubblico. E alla fine ha ragione».
Il programma, inizialmente, va in onda a Milano e lei si deve trasferire.
«Puntata d’esordio a fine novembre, il ritrovo per le prove prima della diretta è alle 14. Mi presento puntuale, ma non trovo nessuno. Quando gli altri arrivano, in grave ritardo, chiedo spiegazioni. Risposta: “Sapendo che sei napoletano eravamo sicuri che tardassi!”».
Lei apre tutte le dirette salutando con “salve” e poi, quando c’è da affondare il colpo, dice “ladomanda sorge spontanea”. Frase che presto diventa un tormentone e che tutt’oggi è rimasta come modo di dire.
«Niente di preparato a tavolino, ma tutto frutto della casualità. Della spontaneità, appunto».
In sette anni di trasmissione smascherate tantissimi raggiri.
«Ci scrivono in molti e abbiamo una redazione che passa tutto il giorno a smistare le lettere di denuncia dei cittadini. In quel periodo per me è impossibile uscire di casa, prendere un tram, un treno o un aereo: quando sono in giro fatico a camminare, chiunque mi ferma e tira fuori dalla tasca un documento che prova questo o quel problema. Divento una specie di- mi passi il termine forse un po’ azzardato - giustiziere degli italiani».
L’improvvisa fama le fa piacere?
«La gradisco molto, perché significa che il pubblico apprezza il mio lavoro, il che è un grande attestato di stima».
Qualche caso storico risolto?
«Una volta portiamo in studio un signore di Valenza Po che, su una tv privata, vende smeraldi».
Certo, Sergio Baracco.
«Molte telespettatrici si sono lamentate dicendo che i suoi gioielli non sono altro che pezzi di vetro, gli chiediamo di ammetterlo in diretta e, come gesto simbolico, di spegnere delle candeline su una torta».
Lo fa?
«Macché, senza dire niente prende la torta e cerca di buttarmela in faccia. Scena che, ovviamente, finisce sul programma satirico “Blob”».
Tra i suoi inviati c’è anche un giovanissimo Fabio Fazio.
«Un ragazzo, già in quel momento, dai toni garbati. Un po’ timido, ma determinato».
“Mi manda Lubrano” inizia in sordina, ma poi continua a crescere e passa da due a sei milioni di telespettatori. Lei però, nel 1997, lascia tutto a sorpresa per andare a Telemontecarlo, la tv di Cecchi Gori.
«La proposta è allettante: andare a dirigere il telegiornale e guadagnare di più. Presto, però, mi rendo conto che non ho tutta la libertà e i mezzi per realizzare le inchieste che mi interessano. E così, dopo soltanto due anni, decido di andarmene».
Torna alla Rai per fare l’autore e presentare “Mattino in famiglia”. Poi, invece, si occupa di musica lirica.
«Inizio ad ascoltarla quasi per caso e me ne innamoro subito. Quando alla Rai mi affidano una trasmissione dedicata all’opera, mi invento un ruolo alla “Piero Angela”, fruttando una particolare tecnologia per entrare nella scena e raccontare trama e aneddoti. La lirica, che fino a quel momento in Rai non fa più di 200mila spettatori, con me arriva fino a un milione e duecento».
Negli anni a seguire, poi, si dedica alla scrittura di libri e alla messa i scena di spettacoli teatrali in giro per l’Italia. Tenendo però, come base, sempre Milano.
«Questa ormai è la mia città e la amo, l’ho sempre considerata la capitale dell’editoria e dei rotocalchi. Qui, all’inizio di “Mi manda Lubrano”, ho conosciuto Maria Rosa Lava, che era responsabile di produzione del programma e che è diventata la mia seconda moglie. È morta poco più di un anno fa ed è stato un colpo durissimo, ne parlo ancora a fatica. Da quel momento ho perso un po’ di interesse nei confronti della vita».
Lubrano, ultime domande veloci.
1) Rapporto con la religione?
«Sono un cattolico autentico, osservante. Ogni domenica vado a messa».
2) Paura della morte?
«Come chiunque, ma non al punto da provare addirittura angoscia. So che, prima o poi, tocca a tutti e io, a 93 anni, ho già vissuto abbastanza».
3) Qualcuno che vorrebbe riabbracciare?
«Oltre a mia moglie, che ho amato profondamente, un amico carissimo: si chiamava Salvatore Bianco, ci siamo conosciuti al liceo e non ci siamo più allontanati».
4) Cosa pensa dei giovani?
«Qualche settimana fa ho visto il Giubileo dei Giovani e l’incontro con Papa Leone XIV, mi ha molto colpito la grande quantità di ragazzi presenti, quasi un milione. Ma se dicessi che ho un’idea precisa sulle nuove generazioni direi una bugia: non le conosco così bene».
5) La trasmissione della quale è più orgoglioso?
«“Mi manda Lubrano”, non tanto per il successo e la popolarità che mi ha regalato, ma perché sodi essere stato utile a tante persone».
Ultimissima: a 93 anni Antonio Lubrano ha ancora un sogno?
«Continuare a incontrare gente nuova, fare amicizie, parlare e confrontarmi con il prossimo».