Baudo e la nostalgia di un’Italia meravigliosamente “artigianale”

Quanta nostalgia nel ricordo che la Rai e Mediaset hanno dedicato a Pippo Baudo. Una nostalgia che ci ha riportati indietro nel tempo, in una tv che rifletteva quell’Italia lì, che ne registrava gli umori e ne influenzava anche il costume
di Gianluigi Paragonemercoledì 20 agosto 2025
Baudo e la nostalgia di un’Italia meravigliosamente “artigianale”

3' di lettura

Quanta nostalgia nel ricordo che la Rai e Mediaset hanno dedicato a Pippo Baudo. Una nostalgia che ci ha riportati indietro nel tempo, in una tv che rifletteva quell’Italia lì, che ne registrava gli umori e ne influenzava anche il costume. Nelle edizioni di quei festival e di quei varietà anni Ottanta e Novanta - gli anni più densi e intensi dell’epopea baudiana - ci siamo rivestiti di vecchi abiti e ci siamo pure sentiti comodi. È stato come aprire il baule del tempo: ascoltare canzoni e ritornelli che sapevamo a memoria perché noi compravamo Sorrisi e Canzoni per avere i testi in mano; ripassare gli stacchetti di quelle coreografie che erano la punteggiatura dei Fantastico e delle Domenica In.

La bionda e la mora. E poi la comicità che riusciva a vivere in tempi dilatati e non in sketch strizzati dai social: le lunghe gag del trio Marchesini-Solenghi-Lopez o di Beppe Grillo, che stava sul palco dieci minuti e anche di più. Lo ha detto bene Fiorello: non c’era l’angoscia e la fretta che scandiscono maledettamente il nostro tempo. Ci siamo rilassati nel rivedere l’Italia dallo specchietto retrovisore: è stato come se Pippo - a lungo silenziato dagli autori dei nuovi linguaggi - ci avesse obbligati, con leggerezza, ad un redde rationem: mi avete silenziato ma davvero vi fa divertire la tv social, davvero apprezzato il singhiozzo degli highlights? No, Pippo. Lo so che non ha senso restare bloccati nei ricordi, ma ad un certo punto possiamo anche rispondere: chissenefrega se ha senso o no; tra le clip delle partite guardate negli schermi dei cellulari e le sintesi di “quel” Novantesimo minuto, quello di Paolo Valenti con tutta la sua banda, non ho il minimo dubbio su cosa mi appartiene. E non ho dubbi sui ritornelli di canzoni cantate senza l’autotune.

Non è solo amarcord generazionale e non è nemmeno un balsamo. Rivedere quelle immagini e riascoltare quelle voci ci consente di analizzare perché certe cose resistono: non è che la digitalizzazione, la smaterializzazione, la velocizzazione stiano destrutturando contesti fino a farli scomparire? Si può pensare che il nuovo sia “cool” e si autoriproduca per effetto dell’intelligenza artificiale, ma si può anche rivendicare uno spazio di rigenerazione artigianale. La televisione non può essere solo il monitor che trasmette materiale sfornato in serie. La televisione è come un atto notarile che registra i cambiamenti di costume e ne influenza i cambiamenti, dunque non possiamo non pensarla avulsa da autori che la scrivono e da interpreti che la fanno vivere con mestiere. Chiunque oggi sta in video - da Fiorello a Conti, da Bonolis ad Amadeus a Gerry Scotti- ha ammesso di avere imparato da Pippo, come il giovane di bottega impara dal sarto. «Chi insegnerà ai nuovi? Chi è degno di essere un maestro? » domandava il buon Rosario. Ha ragione. Aggiungo: ma oggi qualcuno ha ancora voglia di imparare o pensa che siccome si è cibato di frammenti di tutto allora sa davvero tutto? Qualche giorno fa un ragazzino si lamentava del guadagno degli animatori nei villaggi. Lo ha fatto con la furbizia di chi ha già capito che la comunicazione moderna brucia i tempi: un bel video furbetto, con un contenuto di quelli che “indignano” e una strizzatina d’occhio ai giornali di sinistra. Ha raggiunto la notorietà in una battibaleno, ma la stessa rapidità con cui si è fatto conoscere lo ha divorato. E anche un po’ rimesso a posto: la gavetta dei vecchi animatori (che oggi calcano palcoscenici importanti) è stata vissuta con non pochi patimenti, ma ha insegnato a tirar fuori il proprio talento, piccolo o grande. Quel talento che Baudo intercettava e valorizzava. Sì, quell’Italia che abbiamo rivisto nello specchietto retrovisore andrebbe raccontata meglio ai nostri ragazzi, prendendoci il tempo giusto. Che non è la somma di highlights, di pezzetti di film, di citazioni di libri e di frammenti di vita.