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Marco Tardelli e l'Italia '82: "I più forti siamo noi. Bearzot? Una piazza non basta"

Pietro Senaldi
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«Non ci penso mai, ma quando mi capita di rivedere quei sette secondi di corsa e urlo che sono rimasti l'immagine del Mundial '82 in Spagna mi convinco che ero un pazzo. E che adesso non lo sono più».

Sette secondi di gioia irrefrenabile?
«Un urlo liberatorio, di riscatto e ribellione, anche se quell'esultanza un po' negli anni mi ha soffocato, perché alla fine la gente pensa che io abbia fatto solo quello, invece ho fatto anche tante altre cose».

Cosa pensavi mentre correvi?
«Mi è passata davanti tutta la vita. Eravamo arrivati in cima al mondo e avevo dimostrato che avevo ragione a insistere, anche quando i miei genitori non volevano che giocassi».

Oggi il sogno di ogni padre è avere il figlio calciatore...
«Allora il sogno era posto fisso, per mio padre. E mia madre era preoccupata che non ce la facessi perché ero troppo magro. Sperava nella mia testa più che nel fisico, mi voleva intellettuale».

Un giocatore si vede dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia, canta De Gregori...
«Sottoscrivo l'altruismo. Devi avere qualità e lavorare per il collettivo».

Tu cosa avevi in più degli altri?
«La corsa. E il sinistro che calciava come il destro, tant'è che il gol alla Germania è di sinistro».

 

 

Lunedì prossimo saranno quarant'anni da quell'urlo e Marco Tardelli sarà a Roma, con alcuni vecchi compagni della squadra campione del mondo, per presentare il docu-film Italia 1982, una storia azzurra (al cinema in tutta Italia l'11, 12 e 13 luglio) in memoria di Bearzot, «che viene ricordato troppo poco, perché era uno che si palesava solo per difendere la squadra, ma nel momento della vittoria si defilava e lasciava tutto il merito a noi» ricorda il centrocampista Mundial. Viene ripercorsa la cavalcata azzurra, ci saranno interviste ai protagonisti di allora e anche materiale inedito. Perché i Mondiali si vincono una volta sola, ma si è campioni del mondo tutta la vita. Anche se il capitano, Zoff, forse non la pensa così, visto che ha intitolato la sua autobiografia "Dura un attimo la gloria". «No, invece la gloria dura», sorride Tardelli, con l'aria soddisfatta di chi naviga a gonfie vele, «anche se da calciatore ti diverti comunque di più, se non altro perché sei giovane, e lo dico io che pure me la sono cavata anche con le scarpette al chiodo».

Perché da allenatore è andata meno bene che da calciatore?
«Meglio di come mi è andata sul campo non poteva andare. Ho vinto qualcosa anche in panchina, ma io sono cresciuto in un calcio diverso, dove l'allenatore comandava davvero; quando è arrivato il mio turno da mister, non era più così. Ora comandano altri».

Bearzot era il tuo modello di allenatore?
«Bearzot andrebbe commemorato. Non basta dedicargli una piazza, bisogna ritagliargli qualcosa di permanente nella memoria storica del nostro sport. Era un padre per i giocatori, amava educarli e farli crescere, aveva una leadership straordinaria. Anche se era molto severo, ti chiamava, ti guardava negli occhi e ti chiedeva le cose, non potevi mentire né sgarrare. Ma poi, se entravi nel gruppo, non ti mollava mai. Lo fece anche con Paolo Rossi, prima di convocarlo in Nazionale, contro il parere di tutti, al rientro dai due anni di squalifica».

A Tardelli in particolare cosa ha insegnato?
«A credere in me stesso, mi ha dato la forza, facendomi capire che avrei potuto fare grandi cose. Ebbi un momento di sfiducia in Argentina, nel '78, ero stressato e non riuscivo a rendere, andai da lui e mi disse: "Non fare lo stupido, gioca semplice. Se non avessi fiducia in te, non ti avrei portato qui". Bearzot capiva le situazioni».

Lunedì sarà una festa, ma è un compleanno triste, con l'Italia fuori dai Mondiali per la seconda volta di seguito, una cosa senza precedenti...
«Chi non sa di calcio non lo accetta, ma è una cosa che può capitare. C'è stata anche molta malasorte, tra rigori sbagliati e sconfitte storiche».

Non è che valiamo poco?
«Eppure siamo campioni europei in carica».

Un miracolo...
«Un mezzo miracolo. Penso che abbiamo pagato il rilassamento post vittoria, come dopo il 1982, una sorta di incapacità di avere continuità».

Ci manca il centravanti?
«In Spagna quando lo ritrovammo, decollammo. Qualcosa di sicuro ci manca, e sarà Mancini a trovarla. Io non penso ci manchino i talenti, certamente ci manca il fuoriclasse, ma arriverà anche lui».

L'Italia domina in tutti gli sport, dal nuoto all'atletica, e arranca proprio nel calcio...
«L'Italia resta una nazione fondata sul calcio. Però abbiamo esagerato con gli stranieri. So che è impossibile, ma bisognerebbe tornare ad avere un tetto, non più di sei per squadra. Altrimenti i nostri ragazzi non crescono».

Quando i nostri club torneranno a vincere in Europa?
«Quando investiranno, come in Inghilterra e Spagna. Per vincere servono soldi, stadi di proprietà...».

Però Lukaku ritorna pur guadagnando meno...
«Perché Marotta è un genio e perché per i calciatori veri i soldi arrivano dopo. La cosa principale è giocare, stare bene e realizzarsi. Lukaku è un messaggio positivo. I tifosi dell'Inter hanno fatto bene a perdonarlo subito».

Lo scudetto l'ha vinto più il Milan o l'ha perso più l'Inter?
«Il Milan ha meritato ma se l'Inter non avesse passato quel febbraio terribile non ce l'avrebbe fatta».

Chi vince quest'anno?
«Vediamo come finisce il mercato. Certo la Juve deve rientrare nel gruppo di testa».

 

 

Rimpianti come calciatore?
«Uno solo: non aver vinto la Coppa Campioni».

Ma l'hai vinta...
«All'Heysel non è stata una partita. Non dovevamo giocare, per rispetto dei morti. Quel giorno è stata la sconfitta del calcio, perciò non aveva senso incoronare vincitori».

Perché la vittoria del 1982 ha fatto più storia delle altre?
«Perché non vincevamo dall'anteguerra e perché, diciamolo senza ipocrisie, un conto è rifilare tre gol al Brasile di Zico e schiantare la Germania in finale, altro è eliminare Australia e Ucraina e prevalere ai rigori. Noi avevamo fatto fuori tutti i più forti. Il modo conta, anche se nel calcio la vittoria poi cambia tutto».

Cosa fu decisivo allora?
«Il passaggio del turno. Nel '78 partimmo alla grande e scoppiammo dopo. Fu una lezione. Quattro anni dopo cambiammo preparazione e fu un crescendo. Fu una vittoria più studiata e preparata di quanto non si pensi ancor oggi».

Perché avevate la stampa contro?
«Perché Bearzot stava antipatico ai giornalisti. Non era mediatico, non dava confidenza. La stampa voleva Pruzzo e non Rossi».

Pruzzo era forte...
«Molto, ma per il suo gioco il mister aveva scelto Rossi. E non era uno che cambiava idea facilmente».

Si dice che la vostra vittoria lanciò l'Italia in tutti i campi...
«Allora oggi ne servirebbe un'altra. Penso che per tornare a correre gli italiani debbano smetterla di lamentarsi di tutto e di raccontarsi come i peggiori del mondo. Come insegna Bearzot: se vuoi vincere devi credere in te stesso e non ascoltare troppo le critiche».

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