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Politica e sport, ormai si punisce solo se il gesto non è progressista

Daniele Dell'Orco
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 Se esistesse il podio delle più ipocrite massime di questo secolo sarebbe di certo: «La politica resti fuori dallo sport». Fenomeno culturale e sociale totalizzante come pochi, lo sport scandisce le nostre vite e, di conseguenza, le epoche, unisce (o divide) milioni di persone, genera tendenze, influenze e usanze. Lo sport è politica in senso stretto, e difatti con la politica va a braccetto perlomeno dalla fine dell’Ottocento, con la nascita delle Olimpiadi moderne, eventi con una risonanza talmente elevata da diventare sperakers’ corner con milioni di ascoltatori.

Volenti o nolenti. Così governi, dittature, movimenti di lotta, e persino singoli, hanno fatto irruzione nei Giochi per proiettare le proprie ambizioni. Col passare dei decenni e l’avvento degli sport di massa, praticamente ogni evento ha acquisito un peso specifico spropositato a livello mediatico. E al contempo, con lo spaesamento dilagante, lo sport è diventato uno dei veicoli di senso di appartenenza.

È politica, non c’è nulla da fare. Lo era nel 1936 quando il centometrista nero Jesse Owens rovinò l’Olimpiade perfetta ad Adolf Hitler vincendo a Berlino tre medaglie d’oro mettendo in imbarazzo i nazisti e le loro convinzioni. E lo era nel 1968, quando, a Città del Messico, altri due velocisti statunitensi di colore, Tommie Smith e John Carlos, ascoltarono l’inno nazionale sollevando un pugno chiuso ricoperto da un guanto: una manifestazione di solidarietà nei confronti delle Black Panthers, l’organizzazione in lotta contro la discriminazione degli afroamericani.

Qualcuno vide un significato politico anche dietro il miracolo del 1960 di Abebe Bikila, maratoneta etiope che percorse a Roma i 42 chilometri senza scarpe. Erano gli anni in cui il continente nero si liberava dalla colonizzazione, e quello di Bikila sembrava un pellegrinaggio politico.

In tempi più recenti scene del genere sono diventate così frequenti da perdere la loro iconicità, e Uefa e Fifa (per restare al calcio), ma anche il CIO (perle Olimpiadi), sono a loro volta diventati organi politici, visto che hanno iniziato a vergare dei protocolli morali, alcuni espliciti, altri meno, per regolare il fenomeno. Puniscono ogni forma di rimando al nazionalismo, com’è accaduto nell’Europeo in corso al turco Merih Demiral per l’omaggio ai Lupi Grigi ma anche, durante la fase a gironi, all’albanese Mirlind Daku che, al termine della sfida pareggiata contro la Croazia nei minuti finali, si è reso protagonista di alcuni cori nazionalisti contro Serbia e Macedonia del Nord. Stessa sorte toccata non ad un calciatore ma a un giornalista, il kosovaro Arlind Sadiku, a cui è stato ritirato l’accredito per aver provocato i tifosi serbi con il gesto nazionalista dell’aquila bicipite con le mani, gesto ultraidentitario kosovaro che costò però solo una multa agli svizzeri-kosovari Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri ai Mondiali 2018.

La lista di casi, specie in ambito balcanico, sarebbe lunghissima, come pure le disparità di trattamento. Niente di paragonabile, però, alla tolleranza, per non dire all’incentivo, quando saltano fuori gesti politici più fashionable. Nel 2016, durante le Olimpiadi di Rio, la schermitrice italiana Elisa Di Francisca, fresca vincitrice della medaglia d’argento nel fioretto, festeggiò sul podio esponendo la bandiera europea (e non, come da protocollo, quella nazionale). Ovviamente non venne sanzionata. E le nazionali dello scorso Europeo che rifiutavano di inginocchiarsi per il Black Lives Matter venivano sottilmente persuase a cambiare idea. Come pure agli scorsi Mondiali in Qatar, quando le nazionali progressiste ne pensavano una al giorno per mandare messaggi arcobaleno che facevano infastidire gli emiri. Tra queste, l’Inghilterra di Jude Bellingham.

Questi, in Germania, ha scelto di mimare verso gli avversari un gesto volgare sollecitando i propri attributi. Non proprio uno spot per il calcio. Ma siccome non rientra nel messaggio politico, per l’Uefa è tutto ok. Se l’è cavata con una squalifica sospesa. Tipo i caffé di Napoli.

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