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Ravenna, picchiata dagli altri musulmani: ecco perché, l'ultimo orrore

di Simona Pletto venerdì 18 luglio 2025

4' di lettura

Non esce più. Non va nemmeno a mangiare una pizza con le amiche. Le figlie non le porta più al parco. Esce solo all’alba, quando le strade sono vuote e i negozi appena aperti. Poi torna di corsa a casa, dove vive con i genitori e le due bambine di sei e undici anni. Una casa che diventata rifugio e prigione. Samantha – nome di fantasia – ha 32 anni, è di origine algerina e da 25 vive a Massa Lombarda, in provincia di Ravenna. Qui è cresciuta, ha studiato, lavorato, si è sposata, ha divorziato. Ma oggi la sua “colpa” – per qualcuno – è di essere diventata «troppo italiana». Non porta il velo, veste all’occidentale, fuma, ha i tatuaggi, parla con tutti. Per questo è stata aggredita. Due volte. Prima da tre uomini, poi anche da una donna. Sempre musulmani, come lei. Solo che Samantha ha scelto di essere libera. E per questo, ora, ha paura anche di vivere. «Tutto è cominciato quando ho denunciato quei tre uomini che mi avevano picchiata in piazza davanti alla mia bambina», racconta. «Ma ancora di più quando ho detto pubblicamente che ero finita nel mirino della comunità islamica perché non indossavo il velo. È stato come firmare una condanna».

La seconda aggressione è avvenuta lunedì sera. La 32enne era con la madre e le figlie al parco per farle giocare. Erano quasi le dieci di sera, stavano rientrando a casa, quando la più piccola – che si trovava poco distante - all’improvviso ha iniziato a gridare. Qualcuno le aveva gettato in testa un liquido urticante. Mentre la sciacquava sotto una fontana, Samantha ha sentito le urla della madre: una donna, anche lei musulmana e velata, la stava insultando e colpendo. Poi la stessa donna si è scagliata contro di lei. «Mi ha preso per i capelli, mi ha strattonata, colpita. Mia madre è stata picchiata nonostante anche lei porti il velo. Io invece sono colpevole solo perché non lo metto. È una guerra contro la libertà, non contro una religione». Sette giorni di prognosi per entrambe. Ma il danno peggiore è invisibile. «Non esco più. Ho paura che possano aspettarmi sotto casa, per strada. Quando butto l’immondizia, mia figlia piange. È terrorizzata. Non dorme, si sveglia urlando nel sonno». I genitori la sostengono, l’accompagnano ovunque. Ma lei si sente comunque sola. «Sono in gabbia. Per un velo che non voglio mettere».

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La comunità islamica, dice, l’ha isolata. «Mi insultano. Dicono che odio i musulmani, che voglio essere italiana. Ma io non odio nessuno. Voglio solo essere libera di scegliere come vivere. Io prego, rispetto la mia fede, ma vado anche in chiesa. In Algeria stavo in spiaggia in perizoma, qui ho paura a uscire in jeans». In testa resta quella prima brutale aggressione subìta a maggio. Era con la figlia, di ritorno da una pizzeria. Quei tre ragazzi l’hanno insultata, uno l’ha colpita, un altro ha sputato sulla bambina. «Quando ho reagito – confida-, mi ha dato un calcio in mezzo alle gambe, un pugno, una testata. Sono finita all’ospedale con dieci giorni di prognosi. Ho denunciato. E da lì è iniziato l’inferno. Qualcuno è venuto a offrirmi soldi per ritirare la denuncia. Ma io non voglio soldi. Voglio giustizia». Da quel momento la sua vita si è ristretta. Non lavora più. Nessuno la assume. «Mi dicono che potrei portare casini. Io farei qualsiasi cosa: pulizie, cameriera, operaia. Ma non ho l’auto, e comunque non uscirei da sola. Vivo così, chiusa in casa, mentre le bollette si accumulano e le bambine crescono, anche loro chiuse in casa».

Anche le amiche – quelle poche che le sono rimaste vicine – la vedono solo se la passano a prendere sotto casa e la portano lontano. In un’altra città, per un’ora d’aria. «Mi dicono che questa battaglia non posso vincerla. Che sono sola. Ma io non voglio mollare. Se me ne vado, se metto il velo per paura, allora sì che hanno vinto loro». È convinta che il bersaglio non sia il velo, ma ciò che rappresenta: l’autonomia di una donna che ha detto basta. A un matrimonio violento, a un modello di sottomissione, a chi vorrebbe dettare legge sul suo corpo, sulle sue scelte, sulla sua fede. «Ho due figlie – ripete – e voglio che crescano senza dover chiedere il permesso di essere se stesse».

Le indagini sono in corso. I carabinieri hanno acquisito i filmati delle telecamere, sentito testimoni, raccolto referti. Ma il timore è che tutto scivoli in un cono d’ombra, come già accaduto in altri casi. Che alla fine, la storia di Samantha resti chiusa in un faldone, dimenticata in un cassetto. O, peggio, che faccia la brutta fine di Saman. Nel frattempo lei vive così: con il fiato corto ogni volta che gira la chiave nella serratura, con lo sguardo basso se incrocia un volto ostile, con la pelle tesa al rumore di un motorino o a un passo dietro le spalle. Non parla più con nessuno, se non con chi conosce da una vita. Esce solo se accompagnata. E anche allora, lo fa con la paura attaccata addosso. Non per ciò che ha fatto. Ma per ciò che ha scelto di non indossare.

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