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Hadassah Chen: "Noi ebrei abbandonati da tutti combattiamo per l'Occidente"

Dall’ottobre 2023 su Israele, da nord a sud, sono piovuti 28mila tra razzi, missili, droni armati e ordigni esplosivi (statistiche Haaretz). Una media di 76 colpi al giorno. Oltre sette milioni di famiglie devono fare i conti quotidianamente con un bombardamento continuo. Con gli allarmi per correre nei rifugi, con il timore di ricevere una chiamata che nessun papà o mamma vorrebbe mai ricevere dalle unità dell’esercito israeliano (Idf), di un parente, di un vicino di casa.
La domanda è se si può continuare a vivere, dal 7 ottobre 2023, sotto questa costante minaccia. Un anno fa, proprio in quelle settimane si galleggiava in attesa della firma del Patto di Abramo con i musulmani sunniti dell’Arabia Saudita con il potente erede della casa reale Mohammed bin Salman a dare le carte di questa complicata partita di poker. In ballo l’apertura di un tavolo di pace allargato. Partita mediata dall’America dell’amministrazione Trump.

LA FESTA DI SHABBAT
Ecco, in questo minestrone in salsa mediorientale si può immaginare di mettere su casa, famiglia, fare dei figli, ipotizzare un futuro nel cuore di un Paese perennemente guerra? Voi lo fareste? Hadassah Chen- milanese, milanesissima con quella sua attitudine tutta lombarda di schedulare ogni istante della giornata al minuto - 20 anni fa fu colpita al cuore dal soldato, dal suo uomo, colui che oggi è suo marito. E così ha preso il primo volo e cominciato questo pendolarismo secolare tra l’occidente e l’oriente, tra tradizioni antiche di 5 millenni e la vorticosa confusione produttiva lumbard.
La incrociamo per caso. È la conduttrice di un canale ebraico. È lei l’esempio in carne e ossa tra l’incrocio delle feste ebraiche e i classici costumi della tradizione meneghina. Riusciamo a parlarci prima dell’inizio della celebrazione dello Shabbat, venerdì 11 ottobre 2024. Giusto un anno e tre giorni dopo il primo anniversario della strage compiuta scavallando le trincee della Striscia di Gaza. Quella che per lei, ebrea osservante e ortodossa, è una festa collima quest’anno con un’altra festa, Kippur, un’altra celebrazione festiva. Quella della riflessione e della preghiera. A Shabbat solitamente ci si riunisce per festeggiare. Si preparano i piatti tipici familiari. Si cercano di soddisfare gusti, tradizioni e ricordi di una cucina millenaria.
Mala coincidenza quest’anno rinnova il dolore del ricordo per l’attacco terroristico partito dalla striscia di Gaza il 7 ottobre 2023. Il calendario ebraico quest’anno costringe ad una riflessione cabalistica ulteriore. Ieri sera è iniziata un’altra festa: quella delle Capanne (Sukkot). Altra coincidenza sofferta: i ragazzi del rave mitragliati dai kalashnikov, rapiti, stuprati dai terroristi di Hamas si erano radunati per festeggiare proprio la festa delle capanne, ricordo millenario della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto.
«Dopo il 7 ottobre 2023», tira le somme la conduttrice di Israel National News e firma del Jerusalem Post, Hadassah Chen, «tutta questa serie di ricorrenze hanno un significato nuovo, diverso, doloroso, profondo e anche di prospettiva geopolitica non limitata al solo Medioriente». Non si tratta soltanto di un problema di sovrapposizione di festività «Kippur quest’anno ha coinciso con Shabbat. Quindi abbiamo festeggiato pur digiunando. Si prega ma è anche un momento di grande riflessione», scandisce. Facendo emergere dall’infanzia i ricordi dei digiuni milanesi. Lei bimba a pregare (nella sinagoga dietro piazza 5 Giornate) mentre tutta Milano vorticava intorno.

KIPPUR, LA RIFLESSIONE
Da vent’anni Hadassah vive in Israele («le mie finestre si affacciano sulla Knesset», il Parlamento israeliano). Difficile immaginare come si viva in un Paese perennemente in guerra, nell’estenuante conflitto tra chi lo vorrebbe fuori dalla storia e chi si sgola urlando “from the river to the sea” (“dal Giordano al Mediterraneo” intendendo la cancellazione di Israele).
«Qui si celebrano matrimoni, si va alle feste, si fa attenzione certo. Si sta sempre con l’orecchio teso ma si continua a vivere perché questo è il nostro Paese. È la nostra terra». E poi c’è Milano. Immaginate una doppia vita più differente: il caos metropolitano lombardo e le tradizioni che affondano le radici nei 5.784 anni del calendario ebraico. Questa signora sorridente della Milano bene (la “e” aperta, infarinata di quel velo di fascino da expat che miscela l’ebraico, con l’inglese e un po’ di slang mediorientale), va dritta al punto quando le chiedo: porteresti via i tuoi quattro figli da Israele, la tua famiglia, da questa guerra?: «La mia famiglia sono i 7 milioni di persone che sono qui in Israele». Ribatte secca. Risposta da knockout. Passo oltre immaginando le commemorazioni religiose di questi giorni sottolineate dalle esplosioni dei proiettili traccianti che illuminano i cieli, l’artiglieria che rimbomba mattina e sera dal Golan al sud di Israele. «L’intensità di Kippur quest’anno è particolare. È l’ultimo giorno che vogliamo star male. La nostra vita non cambia».

ABRAMO, LA PROMESSA
«Mio marito è riservista. Il 27 ottobre tornerà in servizio. Mia figlia ha appeno terminato l’anno di servizio civile al ministero della Diaspora». Ma non vi sentite accerchiati?  L’accerchiamento c’è. Se qualsiasi Paese al mondo si dovesse trovare al centro di un attacco concentrico come quello che viviamo noi.... Eppure, eppure proprio negli ultimi 12 mesi intere famiglie si sono trasferite qui». E il famoso Patto di Abramo che avrebbe dovuto riportare la pace in Medioriente: «Primo: noi in Israele siamo uniti e forti. Ma è anche vero che ci siamo sentiti molto soli. Abbandonati. E invece di supporto e compassione del mondo abbiamo ricevuto solo attacchi. Forse non è chiaro che è tutta la cultura occidentale ad essere sotto attacco. Noi stiamo facendo la guerra per tutti. Non è facile ma andiamo avanti. Forse avete dimenticato già quello che è successo: lo avete già visto con il Bataclan. L’Occidente non conosce questo nemico. Noi lo conosciamo molto bene. Siamo circondati da belve. Quando capirete che questa gente non vuole vivere in pace nel vostro Paese?».

di Antonio Castro

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