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Caso Thyssen, capisco il dolore: ma basta con quelle grida in tribunale

Filippo Facci

Il famoso "Paese normale" dovrebbe biasimare anche le scene in cui la gente grida "vergogna"

Andrea Tempestini
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  di Filippo Facci Non è bello da dire né da scrivere, ma il famoso Paese normale dovrebbe cominciare a biasimare anche le scene in cui la gente grida «vergogna» nelle aule dei tribunali alla lettura delle sentenze, in genere con motivazioni che si assomigliano tutte in ogni processo di rinomanza mediatica: perché «la pena è troppo bassa» e «vogliamo la verità», perché «hanno coperto i mandanti» ed è appunto «una vergogna», perché «questa è la giustizia italiana, che schifo». Sono frasi testuali che ieri sono state urlate alla lettura della sentenza d'appello per il rogo della Thyssen, grida disperate di chi va rispettato e ha sofferto e ancora soffre: come purtroppo succede in tutti i processi per morte di qualcuno. Ma questa, ogni volta, non può essere una giustificazione per tutto: nei tanto evocati paesi civili queste scene non esistono o vengono punite, oppure, male che vada, accadono fuori dal tribunale. Non si possono occupare le aule, non si può insultare i giudici e gli avvocati, i giornalisti non possono limitarsi a porgere il microfono e a fomentare chi la spara più grossa, anzi, mediatica. Parliamo di un processo in cui non hanno assolto nessuno: un amministratore delegato che in primo grado aveva preso 16 anni e mezzo per omicidio volontario (assurdo) ora ne ha presi «solo» 10 perché non ci fu dolo, mentre altri manager hanno preso da 7 a 9 anni. È forse la sentenza più dura mai emessa in Italia per infortuni sul lavoro.       

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