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De' Manzoni: cittadini stufi di Italia e di euro

La crisi della moneta unica ha accelerato quello che i politici ignorano

Matteo Legnani
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Settecentomila persone - su una popolazione di cinque milioni scarsi, neonati compresi - che in 48 ore, ai gazebo o via computer, vota per l'indipendenza del Veneto è un fatto eclatante. Soprattutto se avviene nel momento peggiore per la Lega, la formazione politica che tradizionalmente ha portato avanti queste rivendicazioni. E se è l'esito primo e provvisorio di un referendum organizzato da quattro gatti sopravvissuti a una miriade di scissioni e polverizzazioni (da sempre la vera malattia dei veneti), che non sono riusciti neppure a far avere il «certificato elettorale» a tutti gli aventi diritto. Anche fatta la tara sui ben noti limiti delle consultazioni in rete (ma, come si è detto, in 200 mila si sono recati ai «seggi» di persona) è dunque un risultato clamoroso, che difatti ha attirato l'attenzione dei media stranieri: da Russia Today, che ha organizzato una diretta, alla Bbc fino ad alcuni siti tedeschi. Invece in Italia, dove si fanno paginate di giornali, si aprono i tg e si costruiscono talk show sul voto di 20 mila persone sul blog di Beppe Grillo, il tuono secessionista è rimbombato nel silenzio più assoluto. Neppure le sentinelle dell'antileghismo militante si sono scomodate: non un fiato. Un silenzio ostentato, forse per paura che il solo parlarne possa riportare in primo piano quella «questione settentrionale» che, da Monti in poi e a maggior ragione nell'era del toscano Renzi, è stata confinata in qualche sporadico editoriale senza alcun seguito. Eppure la questione settentrionale c'è più che mai. Anzi, esiste proprio una specifica «questione veneta», la quale va al di là di ovvi riferimenti culturali che pure non sono cancellabili: la millenaria Repubblica di Venezia, la lingua tuttora viva e parlata in qualsiasi ambiente sociale, eccetera. Il fatto è che il modello Nordest - per decenni vero propulsore dell'economia italiana - è stato il più colpito dalla crisi dell'euro. È basato su aziende di piccole o piccolissime dimensioni, poco sindacalizzate, dove il paròn e il dipendente lavorano fianco a fianco. Imprese che hanno fondato la loro fortuna sulle idee, sulla flessibilità e sulla qualità a un prezzo competitivo. Le prime tre condizioni ci sono ancora, ma la quarta è stata stroncata dalla concorrenza (sleale) tedesca. Il crollo del mercato interno (italiano ed europeo) ha dato il colpo di grazia: sopravvive solo chi esporta, ma in un mercato globale per il «piccolo» diventa sempre più complicato farsi conoscere all'estero. Là dove la grande industria teutonica va in forze al seguito di delegazioni governative agguerritissime, l'imprenditore veneto (tradito anche da suo stesso individualismo, va detto) dovrebbe andare da solo e a sue spese: non facile in un momento in cui la liquidità scarseggia, le banche ti chiudono la porta in faccia e il fisco si è fatto sempre più vorace. Così, dal 2007 a oggi, la regione ha perso dieci punti di Pil per un totale di 13 miliardi di euro, ha assistito alla sparizione di circa 8 mila imprese e alla cancellazione di 85 mila posti di lavoro. Solo nell'ultimo anno ci sono stati diecimila fallimenti, quasi millecinquecento crisi aziendali e una cinquantina di suicidi. La straordinaria partecipazione a un referendum che non ha né può avere alcun esito pratico, ma solo il valore di una testimonianza, potrebbe segnare un'inversione di tendenza. Forse i veneti si sono stufati di ammazzarsi nel chiuso dei loro capannoni continuando a pagare anche per altre regioni. Resta da capire quando se ne accorgerà anche il resto dell'Italia. di Massimo De' Manzoni

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