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Yara, l'esame delle celle telefoniche dà una mano a Bossetti

Matteo Legnani
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«Presidente! Presidente!». Ormai sto imparando a riconoscere i momenti in cui in questo processo la Pm Letizia Ruggeri sta per muovere guerra. Accade in ogni udienza, all'improvviso, in modo sempre imprevedibile. Ma accade sempre. Succede proprio quando il dibattito sembra avvolgersi nel più sonnolento e ovattato dei ritmi tribunalizi. La Ruggeri si accende, si innesca come un ordigno a comando remoto. Ad un tratto alza la testa come un predatore che punta la preda, si aggiusta la toga, come un moschettiere con il suo mantello. Da dietro vedi i riccioli che iniziano ad ondeggiare mentre fa No-No con la testa, ed è come un segnale, il drappo di una bandiera di guerra che inizia a sventolare. Poi il pubblico ministero prende un respiro, alza la tonalità della voce di un semitono. E infine inizia a caricare a testa bassa contro uomini, avvocati e cose senza risparmiare nulla e nessuno. In questo periodo, il predatore d'aula predilige la caccia ai consulenti della difesa. «Presidente, cosa è quella roba!?». La Ruggeri sta indicando il monitor dell'aula con una smorfia di disgusto dipinta sul viso, i riccioli già vibrano: ed ecco cosa succede al malcapitato consulente della difesa, Giuseppe Dezzani, reo di aver predisposto e fatto proiettare alla giuria, senza il suo consenso, una mappa della bergamasca che serve a capire dove e come agganciano le famose celle telefoniche che monitorano segretamente le nostre vite. Io, preso dalla suggestione del momento, stavo già chiudendo gli occhi per immaginare meglio, e - siccome in questo processo c'è l'inventario del contemporaneo - pensavo di raccontare tutta l'iniziatica discussione della mattinata prendendo in prestito la celebre matrice di “Matrix”, il capolavoro fanta-cinematografico dei fratelli Walchowsky. Chiedevo gli occhi, ascoltavo i periti parlare, immaginavo il mondo come ce lo raccontano loro: solo un enorme flusso di dati elettronici, di impulsi che ognuno di noi trasmette attraverso il suo telefonino, quasi in ogni momento. Siamo tutti tracciabili, ognuno di noi un puntino intermittente nella rete. Io, mentre guardavo la mappa di Dezzani, pensavo che ancora una volta il processo a Giuseppe Bossetti ci squaderna davanti il Grande fratello tecnologico in cui siamo immersi, la battaglia fra chi pensa razionalmente che in questa matrice ognuno di noi possa essere sempre incastrato e la lotta con la forza indomabile del caos che rompe ogni schema. Tutto questo mentre la mappa di Dezzani ci doveva far capire dov'era Yara quando manda il suo ultimo sms, e dove Massimo Bossetti, quando il suo telefonino aggancia l'ultima volta dalla cella di Mapello in via Natta. Capire il raggio di azione delle celle serve a spiegare se il muratore, la sera della scomparsa di Yara, poteva essere davvero ad un passo dalla palestra di Brembate vicino alla ragazza o - come abbiamo scoperto questa settimana - a casa sua. Ma proprio allora la Ruggeri inizia a ruggire: - «Presidente, cosa sono quelle linee rosse su quella mappa?». - «Non lo so, lo chieda alla difesa». - «Presidente, posso rispondere io: sono delle linee rosse». - «Grazie avvocato lo vedo da me che sono rosse! Ma chi le ha tracciate, cosa indicano? Chi le ha fatte!?». - «Caro pubblico ministero, le ha tracciate il nostro tecnico. Indicano il campo di ricezione delle celle telefoniche». - «No avvocato, quelle linee non dicono nulla! Quali tecnici le hanno tracciate? Lei sarebbe il tecnico della difesa?». - «Sì, il tecnico che le ha tracciate sono io: sono un informatico». - «Lei è un informatico? Lei non sa niente di celle!». - «Sono una mia specializzazione». - «Che titolo accademico ha? Che sarebbero quelle linee? E quei cerchi avvocato?». - «Sono come il simbolo di una Mercedes. Il nostro perito le ha disegnate sulla base dei dati della Vodafone, per dimostrare il campo di irradiazione delle onde e...». - «Ma che dice? Sono disegnate a capocchia, non vogliono dire nulla! Sono disegnate a capocchia!». Bergamo, udienza settimanale del venerdì: nel giorno in cui il teste principale è Giuseppe Gatti, un compassato tecnico delle celle telefoniche, in teoria non dovrebbe accadere nulla. Invece, come sempre al processo per l'omicidio di Yara, la polemica avvampa: fuochi d'artificio, dispute senza fine, battaglia criminologica tra accusa e difesa in cui ogni dettaglio infinitesimale può orientare il processo. Mentre sono seduto in mezzo al pubblico, mi viene in mente che per divertirsi questa giornata va raccontata come un esercizio di stile alla Raymond Queneau. 1) Articolo colpevolista - Sul banco dei testimoni c'è Gatti, un poliziotto senza qualifiche tecniche, ma con enorme esperienza sul campo. Uomo sobrio, di poche parole, senza grilli per la testa. Ci spiega che le celle telefoniche sono una rete invisibile che ci circonda ovunque: una rete elastica, che si flette e si dilata, a cui nessuno sfugge. Anche nel punto del mondo in cui state leggendo questo articolo, proprio adesso, c'è una cella titolare. Ma se c'è troppo traffico, o in condizioni climatiche particolari, il vostro telefonino può spostarsi su un'altra cella. Queste celle, se interrogate con sapienza, ci dicono tutto delle nostre vite, e ci dimostrano anche perché Bossetti è colpevole. Queste celle conservano i dati per due anni, e gli inquirenti, quando è scomparsa Yara - spiega Gatti - hanno chiesto alla Vodafone di congelare tutto il traffico di tutta la bergamasca. Parliamo di un numero che quasi non si può pronunciare, 118mila utenze, 52 mila milioni di chiamate e di traffico dati. Da questo mondo Gatti e gli inquirenti hanno iniziato a isolare due puntini: Yara Gambirasio e Giuseppe Bossetti. Certo, quei dati sono numeri, non intercettazioni, ma un buon inquirente quei numeri li può far parlare. Scavando in questa montagna, per esempio, può scoprire che «Bossetti prima della scomparsa di Yara era andato a Chignolo solo 13 volte. Mentre nei sei mesi successivi ci torna ben 195 volte!». Questo numero di Gatti in Aula colpisce tutti. Chignolo, luogo di morte: perché Bossetti ci torna così spesso dopo il delitto? Non è finita. Il consulente tutto sa, tutto può vedere. Scava nei punti luminosi della matrice, li incrocia con il calendario, ci racconta che il giorno in cui la signora Ester Arzuffi viene chiamata per l'esame del Dna c'è un gran traffico di telefonate. Da casa Bossetti alla signora Ester, dalla signora Bossetti alla polizia, poi dalla signora Ester a Fabio Bossetti, infine da Bossetti alla signora Ester. Che cosa si dicevano? Perché tanta agitazione? Già. C'è persino lo spazio per un po' di simpatico pettegolezzo: lo sapevate che Marita Bossetti, mentre accompagna il marito, trova il tempo di scambiare un sms con un certo signor Massimo Bonalumi, che l'accusa ha individuato come un possibile amante della signora? E infine, il colpo di scena del poliziotto Gatti. In quel novembre in cui Yara muore, non è strano che «Tra il 21 e il 28 non ci sia nessun contatto telefonico tra Marita Bossetti e suo marito Massimo»? I numeri della matrice, interrogati, hanno parlato. Ci raccontano una famiglia in cui si nasconde qualcosa, dove ci si agita per un test del Dna, una moglie che manda messaggini agli amanti ma non al marito, di un marito che non parla con la moglie, ci raccontano che Bossetti era lì, a Brembate, come un lupo che cerca la sua preda. Tracciato fino alle 17.45, ultimo aggancio al settore tre della cella di via Mapello. Poi telefono muto. Un'ora prima di rapire Yara. 2) Articolo innocentista - Giuseppe Gatti ha i suoi rapporti davanti a se, tutti addobbati di ordinati pizzini che lo aiutano a trovare i punti e i dati. È un uomo calmo, pacato, ma quando inizia il controinterrogatorio dell'avvocato Paolo Camporini si perde un po'. - «Lei è un perito?». - «La mia unica formazione è l'esperienza, ho un diploma tecnico». Camporini è affabile ma malizioso: nel rapporto di Gatti vede che cita come riferimento un libro di un certo professor Pozzato di Pordenone. Un testo del 2008, un po' vecchiotto. Chiede: «È questo il suo riferimento?». Gatti vacilla, non ricorda, balbetta, non risponde. La Ruggeri capisce l'insidia e si arrabbia: «Presidente, lo ha spiegato a pagina 8!». Camporini sorride: «Guardi che Gatti non ha bisogno di un difensore, ma di una risposta!». E inizia a tempestarlo. Da questo controinterrogatorio, scopriamo ancora una volta alcune clamorose novità rispetto all'inchiesta. E cioè che alcun indizi considerati come certezze, certezze non sono. Ad esempio Camporini chiede: «Il telefonino di Yara era sicuramente in movimento, perché aggancia diverse celle, oppure potrebbe essere rimasto fermo, e solo le celle variavano?». Gatti risponde: «Non è possibile stabilire con certezza se era in movimento». E quanto è il campo d'irradiazione di una cella? «Una ventina di chilometri, credo», dice il perito. Camporini incalza: «Ma lei qui ha scritto 35 chilometri!». E il perito: «Non glielo so dire con esattezza!». L'avvocato: «Quindi potrebbe essere che io faccio una telefonata, la mia cella non mi riceve, e allora vengo agganciato da un'altra?». Gatti: «Non le so rispondere, io mi baso sui tabulati». Scopriamo che queste celle sono divise in tre settori, ognuno dei quali copre 120 gradi. Ecco l'immagine del mirino della Mercedes. Quindi una cella può intercettare un telefono a Brembate, ma anche in direzione opposta, per un raggio di 30 chilometri? «Non so. Per me è possibile, ma improbabile». Camporini: «Lo può escludere?». «Non lo posso escludere». Scopriamo che quando l'accusa dice intercettato «a Chignolo», in realtà, indica una delle dieci diverse celle che insistono sulla zona di Chignolo (ma anche per venti chilometri in direzione opposta!). Scopriamo anche che Bossetti, dopo quel 26 novembre, aveva un cantiere che era a poca distanza, a Bonate. E che quindi poteva agganciare una cella che copriva sia Chignolo che Bonate. Scopriamo che la cella di Mapello, via Natta, «Poteva agganciare anche a casa di Bossetti». Quindi il lupo poteva essere a Brembate, ma anche a casa sua, a falciare il prato? Il periodo di buio nei contatti con la moglie, non è il solo nel lungo periodo monitorato. Per giorni e giorni solo un contatto. Infine, l'ultimo colpo di scena: Bossetti ha un telefonino Nokia 3220, molto arcaico, rispetto agli smartphone di oggi: «Quindi - chiede Camporini - non è sicuro che lo avesse spento?». Gatti risponde, con tono di voce molto bassa: «Poteva essere in una zona non servita, o spento, o inattivo». Il lupo può essere lupo, ma anche pecora. Le celle sono uno strumento esatto, ma con un raggio molto incerto. Il telefonino che avete in tasca vi può portare alla sedia elettrica. Ma anche no. Per fortuna. di Luca Telese

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