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Altro che Siti, in vacanza leggetevi Busi & Co: i 5 migliori libri dell'estate

Aldo Busi

Il vincitore del Premio Strega? No, grazie: gli antidoti ci sono, dalla Barcellona di Aldo al galeotto Ceccherini

Giulio Bucchi
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Dopo che il più prestigioso e screditato e, quel che è bello, prestigioso poiché screditato, premio letterario italiano, lo Strega, ha eletto il suo vincitore, Walter Siti, vale a dire la poltrona Frau della letteratura italiana, col suo romanzo di «neorealismo piatto» (un genere letterario di cui Siti è inventore e unico degno praticante), intitolato Resistere non serve a niente, possiamo proporre ai nostri lettori una cinquina alternativa, diversa dal mobilio rassicurante, tarlato, dal design finto trasgressivo di cui lo Strega arreda le librerie. Una cinquina italiana, naturalmente, e pure col morto.  Abbiamo l'ambizione di suggerire cinque romanzi che, qualora fossero entrati in contatto col liquore Strega, l'avrebbero incendiato come una molotov per manifesta repulsione. Romanzi che, a differenza della cinquina stregata, perturbano davvero quando vogliono essere perturbanti, commuovono senza ricattare il lettore, divertono senza insegnare la retta via né il ritorno all'ordine. E autori che, ne siamo pressoché sicuri, se fossero montati sul palchetto del premio, il liquore dello sponsor l'avrebbero rigurgitato sulle prime file (per non parlare del morto).  Protagonista d'eccezione - Il primo, naturalmente, è Aldo Busi, col suo El especialista de Barcelona (Dalai, pp. 372, euro 19), del quale non diremo nulla, perché ampiamente si è detto e scritto. Ci limitiamo a sottolineare che non leggere Busi non è una distrazione, ma un reato. Poi c'è Veronica Raimo, il cui romanzo è Tutte le feste di domani (Rizzoli, pp. 296, euro 18) e del suo libro c'è molto da dire, perché nessun altro l'ha fatto seriamente. Raimo esordì qualche anno addietro con una novella, Il dolore secondo Matteo (minimum fax). Sembrava scritta da uno sceneggiatore del gruppo Dogma 95, i registi danesi che si sentono orfani di Dreyer, inseguono una purezza calvinista e demoliscono il mondo dei fasulli rapporti sociali rifiutando l'equazione tra apparenza e realtà che accomuna i consolanti paradisi (anche quelli di troppo) dei neorealisti piatti e dei postmoderni. In breve, la novella di Raimo era un'iniezione di sangue nordico, una rasoiata acida sulle smancerie letterarie italiane.  Questo suo Tutte le feste di domani è persino migliore. Titaneggia la protagonista, Alberta, invischiata in un matrimonio fondato sul principio della realtà, e innamorata di uno scrittore americano in visita a Roma, che sarebbe il principio del piacere. In una scena memorabile, Alberta, nell'appartamento del marito, se ne sta nella sua camera e commenta quanto viene detto nella stanza accanto, da certi studenti saputelli che il marito, professore universitario, ha liberalmente invitato per un seminario sul cinema. Critica, sbeffeggia, applaude, ma dietro le quinte: ciò che facciamo in continuazione nel realismo vero, non quello piatto di Siti. Non ci sembra che in Italia vi sia stato scrittore, maschio, femmina o altro, ad aver costruito una figura di donna altrettanto penetrante quanto Alberta: se immaginate un adattamento dei Dolori del Giovane Werther recitato dalla giovane Stefania Sandrelli, capirete di cosa parlo. Terzo da citare, Gilberto Severini, che ha scritto Backstage (Playground, pp. 144, euro 13). Severini è come quei fenomeni del calcio (argomento di cui si parla spesso nel libro) che con lentezza e souplesse stupefacenti, dribblano tutta la difesa avversaria ed entrano in porta con tutta il pallone. Lo leggi e ti cascano perle in testa come tegole che risvegliano dal torpore: «Se si vuole evitare di ridurre la propria sincerità a un gemito narcisistico bisogna accettare la fatica di lavorare con cura alla sua messa in scena». Il suo libro, sotto forma di comunicazioni confidenziali al suo editore, è una meditazione su come amavamo e come amiamo, su cosa leggevamo e cosa leggiamo, su come camminavamo e come camminiamo. Severini, a differenza dei neorealisti piatti, sa che il nostro tempo non esiste, c'è sempre un dialogo aperto con il passato e con il futuro.  Il quarto è Fabio Viola, che ha pubblicato Sparire (Marsilio, pp. 282, euro 17,50). È il più “sperimentale” della nostra cinquina, nella storia di Ennio che va in Giappone sulle tracce della sua fidanzata scomparsa, la linearità della trama è spezzata, la successione temporale singhiozza, i comportamenti si fanno sussultori e imprevedibili come il terremoto che squasserà le città. Viola ci suggerisce che Fukushima è sempre in corso, nella nostra percezione, nella nostra memoria, l'epicentro del sisma è parallelamente nella Terra che ci ospita e in noi che la abitiamo. Le scosse, originate dal Giappone, raggiungono chiunque abbia una coscienza che possa dirsi approssimativamente umana. Così la storia d'amore di Ennio è fratturata perché Ennio è un rilevatore più che un uomo. Capirete che Sparire non è un libro per tutti, ma, come è stato autorevolmente detto, se è per tutti non è arte, e se è arte non è per tutti.  Mistica dietro le sbarre - Chiudiamo infine la cinquina con il morto. Si chiama Silvano Ceccherini, il suo romanzo è La traduzione (Elliot, pp. 254, euro 18,50). Nato a Livorno nel 1915 e morto nel 1974, per sua fortuna studiò solo fino alla terza o quarta elementare, passò cinque anni nella Legione straniera e fu condannato a 18 anni nel carcere di Porto Azzurro, La traduzione fu stampata da Feltrinelli nel 1963, poco prima dell'uscita dalla gattabuia del suo autore. La trama è semplice, il trasferimento del detenuto Olgi Valnisi, malato di cuore, dal carcere di Civitavecchia a quello di Saluzzo. Ma, come scrive nella bella prefazione Filippo Bologna: «La traduzione è quasi il testo di un mistico, estremo tentativo di non abbrutirsi, strenua prova di volontà e forza spirituale: mantenersi uomini tra gli uomini che hanno dimenticato di esserlo». Mentre fuori dalle sbarre hanno dimenticato cos'è la letteratura. di Giordano Tedoldi

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