Capezzone: tre domande sulla democrazia a Repubblica

La fatwa laica di Manconi su destra, AfD, Le Pen. E pensare che si dicono pure "democratici"
di Daniele Capezzonesabato 17 maggio 2025
Capezzone: tre domande sulla democrazia a Repubblica
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Luigi Manconi è un elegante sociologo, un autorevole saggista, è stato a lungo impegnato in politica come leader verde, ed è oggi, da editorialista di Repubblica, uno dei principali e più rispettati riferimenti culturali dei progressisti italiani. Ieri, citando Karl Popper (che per evidenti ragioni non poteva difendersi), il commentatore di Rep si è prodotto in una sorta di fatava (laica, si capisce), d pronunciamento sacrale su cosa si possa o non si possa dire in una democrazia, e soprattutto su chi sia o non sia autorizzato a farlo. Lasciamogli dunque la parola.

Dice Luigi Manconi che «va respinta l’interpretazione - che si vorrebbe liberale, e che invece è solo stracciona- che legge la riesumazione della X Mas o le parole scellerate di un esponente del governo come altrettante espressioni della forza e della vitalità della democrazia». No, sostiene il sociologo: semmai «sono segnali della sua crisi e della sua vulnerabilità». A onor del vero, poco più avanti, in uno dei rari passaggi dell’articolo in cui le dichiarate premesse liberali non si traducano in divieti, messe al bando o espulsioni, Manconi ammette che «quelle parole e quei gesti vadano stigmatizzati moralmente ma non sanzionati penalmente». Al momento siamo e siete salvi (penalmente parlando), amici lettori. Ma occhio, perché siamo solo all’inizio.

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Dice ancora Luigi Manconi, spostandosi in Germania, che «la tolleranza non comporta che si consideri AfD “un partito come gli altri”». No, sostiene il sociologo: «Si tratta, in tutta evidenza, di un partito pericoloso che lavora per la normalizzazione dell’ideologia nazista». «In tutta evidenza», capite? Non se ne può nemmeno dubitare. Non osate, mi raccomando. Dice più avanti Luigi Manconi che, su Marine Le Pen e sul Rassemblement national, è in corso, da parte di chi li difende, una «manipolazione della realtà», perché contro la leader della destra francese si è pronunciato «un organo indipendente dello stato di diritto, la magistratura».

Dice infine Luigi Manconi che, quanto alla Romania e all’esclusione di Calin Georgescu dalle elezioni presidenziali, «osi mette in discussione la legittimità dell’Alta Corte (...) oppure quella decisione va rispettata». Sostiene il sociologo che il consenso popolare di Georgescu «non è argomento sufficiente a inficiare le decisioni del massimo organismo di garanzia e a ribaltare le regole dell’ordinamento giuridico».

Ho fatto ricorso ad amplissimi virgolettati testuali proprio per tentare di riassumere nel modo più rispettoso, senza alcuna distorsione o caricatura, ciò che sostiene il sociologo progressista, oggi prima firma di Repubblica. Diciamo che almeno in materia di libertà di espressione, Manconi è assertivo nelle premesse (i saluti romani, ci informa, «gli fanno francamente schifo», mentre non ci fa sapere nulla sui pugni chiusi), ma almeno è prudente nelle conseguenze. Come abbiamo visto, non chiede sanzioni penali. Bene. Altrimenti, sarebbe rimasto il piccolo dettaglio di decidere chi sia titolato a stabilire cosa si possa e non si possa dire, chi sia il titolare di una sorta di pericolosissimo “ufficio patenti”, con la facoltà di concederle o ritirarle. Almeno questo, diciamo così, ce lo siamo per il momento risparmiato.
Restano però alcune domande sul resto dell’articolo, specie nelle parti in cui - dalla Germania alla Francia alla Romania - Manconi è lestissimo nel buttar fuori dalla democrazia i tre partiti attualmente primi nei sondaggi popolari.

Prima domanda: fermo restando il principio della tripartizione dei poteri, che facciamo, affidiamo alla magistratura il potere (tutto politico, arbitrario, discrezionale) di risolvere per via giudiziaria le partite politiche perse nelle urne? Si prenda il caso Le Pen: al di là della condanna, la sanzione accessoria dell’ineleggibilità era del tutto facoltativa. I giudici non erano affatto obbligati a disporla: eppure- oplà- si sono affrettati a irrogarla già durante il primo grado di giudizio. Curioso, no?

Seconda domanda: le decisioni (già così discutibili in termini di metodo) della magistratura non possono nemmeno essere dibattute nel merito? Anche qui, è curioso come alcuni laici abituati a dubitare su tutto (molto bene, ottima attitudine) diventino dogmatici appena si avvicinano a un palazzo di giustizia. Lì sono ammessi solo atti di fede: chi si sottrae “delegittima”, nientemeno. Quindi i politici (eletti dal popolo) possono e devono essere oggetto di scrutinio ad ogni livello, mentre i magistrati (non eletti da nessuno) no.

Terza e ultima domanda: e gli elettori? Cosa facciamo di un tedesco su quattro (che voterebbe oggi AfD: a febbraio era uno su cinque), di un francese su tre, di due rumeni su cinque? Li espelliamo pure loro? Li rieduchiamo finché non impareranno a “votare bene”?

La realtà è che siamo dinanzi a un gigantesco complesso di inferiorità dell’attuale sinistra. Che sa di avere perso presa su amplissimi settori popolari, e dunque - con maggiore o minore eleganza - non sa resistere alla tentazione di buttar fuori gli avversari prima che la partita inizi. Per vincere a tavolino. Auguri, ma non chiamatevi “democratici”, per favore.

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