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Matteo Renzi, il partito della Nazione è già morto

Lucia Esposito
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Non ce l'avranno fatta a smacchiare il giaguaro ma il pelo all'ex lupetto gliel'hanno accorciato. I compagni dell'Emilia del rottamato Bersani e dello sbertucciato Landini stavolta sono riusciti ad assestare un bel cazzotto all'immagine vincente del segretario con la battuta sempre pronta. In meno di sei mesi, dalle Europee di giugno, il Pd nella regione rossa perde quasi settecentomila voti su un milione e due e arretra di 10 punti percentuali. Ha un bel dire Renzi che «l'astensionismo è un fattore secondario» e che «ha vinto chi ha fatto le riforme»; le sue parole suonano oggi distanti dalla realtà esattamente come quando parla di tasse tagliate o di Italia che si fa rispettare in Europa. Non che il premier questo non lo sappia, ma ugualmente ha deciso per la linea del “tranquilli, abbiamo vinto noi”; a uso interno per dettare ai suoi lo spartito da suonare poi meccanicamente in tv per tutta la settimana, a uso esterno per precisare agli avversari che comunque stanno messi peggio e la musica la sceglie sempre lui. Ma i modi ancora più spicci e arroganti del solito che Renzi usa per truccare da vittoria una sconfitta dimostrano che il segretario ha fiutato che i tempi sono grami e anche per lui l'aria può cambiare da un momento all'altro. Il voto di domenica manda infatti al premier diversi, spiacevoli messaggi. Il primo è che “la ditta”, per dirla alla Bersani, non è ridotta alle «percentuali da prefisso telefonico» che vagheggia Matteo. Può ancora far male. Non in Emilia, ma in Parlamento per le riforme, in piazza a rovinare l'immagine - anche internazionale - del leader, nell'elezione del successore di Napolitano e, a primavera, in altre Regioni. Domenica la Cgil ha dato libertà di coscienza ai militanti sul recarsi alle urne o no. I risultati, solo il 37% di votanti, non ammettono discussioni e non si spiegano solo con la scusa dell'elettorato deluso dalla giunta Errani, mandata a casa con 41 consiglieri indagati su 50. Il voto emiliano è un avvertimento, forte ma volutamente non irreparabile. Se non gli riuscirà di andare al voto nel 2015, con la ditta Renzi dovrà cominciare a trattare, perché se l'orizzonte è il 2018 allora sì che il partito è a rischio scissione a sinistra. Anche se, vedendo come i renzini non abbiano avuto alcuna difficoltà a suonare la grancassa della vittoria tra gli sguardi sconcertati di cuperliani e civatiani che li fissavano come fossero dei visitor, l'impressione è che la parte più governativa del Pd debba ancora prendere piena coscienza del possibile prossimo cambio di corso, che passa anche per un cambio di toni verso i compagni di partito, visto che la spocchia che la sinistra fatica a perdonare al premier risulta intollerabile nei ministri e deputati che scimmiottano il capo. Tra i quasi due milioni di emiliani che non sono andati al voto, gli ricordano Landini e la Annunziata, molti sono i dimenticati da Renzi, quelli che non si illudono di trovare lavoro con il Jobs Act o che guadagnano troppo poco per beneficiare degli 80 euro o che avranno una pensione da fame se le norme in manovra sulla previdenza non verranno riviste. E questo è il secondo punto: malgrado il carisma e le apparizioni a raffica in tv, quattro elettori su cinque dubitano che il premier abbia idea di come condurre il Paese fuori dalla crisi. Al punto che molti ex comunisti si fidano più della via vecchia del sindacato e di Bersani che di quella nuova renziana. Il terzo è che per convincere l'elettorato ormai neanche a Renzi bastano solo le parole. A giugno ha distribuito 80 euro al mese a 10 milioni di persone, e ha stravinto. A ottobre si è presentato con tagli alle Regioni che sono l'annuncio di un aumento delle addizionali Irpef e delle tasse sulla casa, e la risposta è stata diversa. L'elettorato ha trovato il vaccino all'annuncite e vota col portafoglio in mano. Il quarto messaggio è che la manovra di sostituire i voti in uscita a sinistra con voti in entrata dal fronte moderato o da Cinquestelle è ancora in alto mare. I grillini sono crollati ma il voto di protesta è andato tutto alla Lega, che ha raccolto anche il malcontento dei forzisti che non hanno disertato il seggio. Il boom padano però è anche un segnale rassicurante per il premier, perché finché il centrodestra non troverà la quadra tra moderati, libersiti e padani, Renzi si potrà permettere ancora di fare il primo della classe pur con risultati modesti o nulli. Pietro Senaldi

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