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Il ritratto di Perna: Paolo Gentiloni, il conte proletario alla Farnesina per caso

Giulio Bucchi
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Proseguendo sulla via che da incendiario lo ha trasformato in pompiere, Paolo Gentiloni è da due mesi alla testa della Farnesina senza dare segni di vita. Se parla, è per dire l'ovvio. Se agisce, sta fermo. Probabilmente l'incarico lo ha preso alla sprovvista. A fine ottobre 2014, quando Federica Mogherini ha lasciato la poltrona italiana degli Esteri per quella europea, nessuno pensava che sarebbe stata sostituita dal conte Gentiloni Silverj. Il premier Renzi era baldanzosamente andato al Quirinale con quattro nomi da sottoporre a Giorgio Napolitano per la successione. Per essere trendy, aveva compilato un rosa di sole donne che, stando ai si dice, erano un tecnico - Elisabetta Belloni, cinquantaseienne direttore della Farnesina - e tre politiche del Pd di medio calibro: Marina Sereni, Simona Bonafè e Lia Quartapelle. Scorsa la lista, Re Giorgio ha storto il naso e preteso un politico di esperienza, comprovata capacità e col giusto physique du rôle. Insomma, a sentire lui, ci voleva il conte Metternich. Matteo, che non ne aveva mai sentito parlare, lo mandò a cercare. Non trovandolo, prese a caso un altro conte e il sessantenne Gentiloni è diventato ministro degli Esteri. Lo sconcerto fu generale perché il conte Paolo era figura ormai sbiadita. Il suo attimo di gloria risaliva al Prodi II (2006-2008) di cui fu ministro delle Comunicazioni. All'epoca, si illustrò come antiberlusconiano di vaglia, approntando una legge che metteva alle corde le tv del Biscione. Il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri che di Paolo si riteneva amico e si era speso per farlo ministro, rasentò il crepacuore per il voltafaccia. In seguito, il provvedimento finì nel nulla perché il governo cadde, ma l'odio che lo aveva ispirato rimase negli annali. Spiritosamente, come gli riesce di rado, Maurizio Gasparri, suo predecessore alle Comunicazioni, disse di Gentiloni: «È un portatore sano di rancore». Dopo questi avvenimenti, il conte si limitò a farsi rieleggere nel Pd a ogni legislatura, tanto che oggi ne ha già accumulate quattro. Non dette mai più nell'occhio, salvo qualche modesta apparizione televisiva all'insegna del basso profilo: sorriso mesto, sguardo vago e un parlare lento e sofferto da canonico con la gotta. Mentre, dunque, tutti caddero dal pero per la nomina di Paolo agli Esteri, il solo che l'abbia accolta come cosa naturale è stato Francesco Rutelli. In un tweet, il fu sindaco di Roma scrisse: «Felice per Paolo, per gli Esteri e per la nostra amicizia». Gentiloni è infatti una creatura di Cicciobello il quale, essendo ormai in panchina da anni, cerca di attirare l'attenzione su di sé appena si puntano i riflettori sui suoi ex dipendenti. L'ha fatto anche con Renzi che debuttò in politica con lui. Sulla rentrée di Gentiloni ha immediatamente poggiato il cappello. Ecco come continua il tweet di cui sopra: «Paolo Gentiloni è stato storicamente uno stretto collaboratore di Francesco Rutelli (parla di sé in terza persona, ndr) che ha seguito sia in Campidoglio, sia nella Margherita, sia nel governo Prodi». Quasi un compendio della carriera del nostro conte. Va solo aggiunto che Paolo fu curatore della campagna elettorale del sindaco, suo portavoce e suo assessore al Giubileo del Duemila. Mettiamoci pure la successiva esperienza di presidente della Commissione Vigilanza Rai (2005-2006), quella di ministro delle Comunicazioni e tiriamo le somme. Ditemi voi cosa c'entra Gentiloni con gli Esteri?  Assolutamente nulla. E lo sta dimostrando. Mentre i marò sono sempre a bagnomaria, il conte, come i predecessori, spreca fiato con i fachiri di Nuova Delhi, invece di sbugiardarli portando la vertenza nelle sedi internazionali. Dieci giorni fa, giusto perché si era imbufalito perfino Napolitano, ha trovato il fegato di richiamare l'ambasciatore. Per fare che? Non si sa. Sulla Libia, intanto, stiamo con le mani in mano nonostante ci abbia chiesto aiuto. Gentiloni si dice pronto a mandare i bersaglieri. Prima però vuole il timbro dell'Onu, Ue, Nato, Fifa, Fao, Coni e il bacio della buonanotte dalla Fata Turchina. Nel frattempo, gli islamisti succhiano il petrolio. Sull'islam il ministro è confuso. Giorni fa ha detto all'Avvenire: «I cristiani sotto attacco sono un'emergenza drammatica … bla, bla … Ma guai a criminalizzare l'islam, è tempo di dialogo … bla, bla… L'islam (buono e caro, ndr) è stato sequestrato da un gruppo (l'Isis, il solo cattivo, ndr)». Il conte trascura che cristiani sono sgozzati anche in Iraq, Afganistan, Bangladesh, Pakistan, Indonesia, Nigeria, Somalia, Sudan. Ogni anno ne sono uccisi 105 mila, uno ogni cinque minuti (col contributo, più modesto, di induisti e comunisti del Nord Corea). Se il conte insiste nel dialogo con gli imam, si faccia un quadro esatto, e ci vada col mitra a tracolla. Il nostro Paolo discende, per così dire, da un patto più illustre di quello del Nazareno: il Patto Gentiloni che nel 1913 riportò alle urne i cattolici che rifiutavano di votare dai tempi della breccia di Porta Pia. A stipularlo fu l'inclito avo dell'attuale ministro, conte Ottorino Gentiloni Silverj, uomo di fiducia di Pio X. La schiatta, originaria di Tolentino, è divisa in rami principali e secondari. A uno di questi appartiene Paolo. Ma quando si parla di lui, come adesso, qualche rivolo dei Gentiloni Silverj scrive puntualmente ai giornali per dire che egli appartiene a un ramo così collaterale che poco o nulla ha da spartire col capostipite Ottorino. Come che sia, vari Gentiloni con l'andare dei decenni hanno preferito l'ultrasinistra ai preti. Si è visto, infatti, un Filippo al Manifesto, un Francesco in Rifondazione comunista, ecc. Anche Paolo, prima dell'attuale scipitezza, era stato un truce capellone. Nato a Roma, il conte frequentò negli anni Settanta il «Tasso», liceo della borghesia progressista. Fu l'indiscusso capo del Movimento studentesco. Era un leader glaciale, deciso, di pochi gesti e nulle parole. Portava l'eskimo e i capelli alla Tarzan. Era magro e altero. Le fanciulle lo adoravano perché si atteggiava a proletario ma era nobile. Per le stesse ragioni piaceva alla Preside, la sinistrissima Adelaide Di Porto, e alle professoresse del medesimo stampo. Interrogato, concedeva una risposta secca e tornava al banco col massimo voto. Dedicava il resto del tempo a manifestazioni e sit in. Picchiava, ma solo per dimostrare il suo coraggio. La violenza era tralasciata alla manovalanza. Per i pochi di destra del «Tasso», la vita era dura. Un giorno, Tajani, oggi vice Fi del Parlamento Ue e allora capo di un gruppuscolo monarchico, fu accostato davanti a scuola da una «Cinquecento». Ne uscirono in quattro con spranghe che sottoposero il povero Antonio a un trattamento non diverso dalla bacchiatura delle olive. Si beccò sette fratture in sette secondi, mentre il conte e i suoi assistevano beati. Così, come direbbe il sottosegretario Faraone (Pd), si formavano le classi dirigenti e i futuri ministri degli Esteri. di Giancarlo Perna

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