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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Maria Acqua Simi
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Il pronostico era facile e nel nostro piccolo lo avevamo azzeccato. Immaginavamo infatti che la Cassazione avrebbe dichiarato nulla la condanna dell'avvocato inglese David Mills, chiudendo con una prescrizione uno dei processi più discussi tra quelli che hanno coinvolto in questi anni il presidente del Consiglio. Per noi il procedimento non avrebbe nemmeno dovuto cominciare, perché erano evidenti sin dall'inizio i vizi di forma e anche quelli di sostanza, ma dopo che il Tribunale lo aveva avviato ci saremmo attesi una sentenza nel merito, la quale smontasse per mancanza di prove il castello di teoremi costruito dalla Procura di Milano. Ma così non è stato. La suprema Corte ha preferito applicare la giustizia all'italiana, decidendo di mandare assolto l'imputato, ma al tempo stesso non discolpandolo totalmente. Così tutti potranno cantare vittoria, il legale straniero, quelli del Cavaliere e perfino i pm. Come tanti Ponzio Pilato i componenti del collegio giudicante se ne sono lavati le mani, trovando un escamotage che cancellasse il processo e le relative condanne, ma non smentisse i pubblici ministeri. Così questi potranno dire di avere avuto ragione e di aver perseguito giustamente l'avvocato inglese in primis e Berlusconi di conseguenza. Il Fatto quotidiano, la Repubblica e tutti i giustizialisti d'Italia potranno continuare a scrivere che la corruzione ci fu e dunque, anche se non c'è stata la sanzione penale, Mills e il premier sono colpevoli. Del resto è ciò che è accaduto con Giulio Andreotti, assolto dopo anni di inutili e costose indagini della Procura di Palermo, ma che nonostante tutto continua a essere dipinto come un criminale da Caselli e dai suoi portavoce. Eppure gli elementi per sentenziare che il fatto non sussiste c'erano. Sarebbe bastato leggersi le sterminate ricostruzioni della pubblica accusa e anche i pronunciamenti nei diversi gradi di giudizio, da cui risulta chiaro che non esiste la prova di un passaggio di denaro tra il legale inglese e Berlusconi. Se si trattasse di un delitto diremmo che manca il cadavere e dunque è impossibile condannare chicchessia per omicidio non essendosi trovato il corpo dell'assassinato. Ma qui siamo in presenza di quattrini e soprattutto di molte fantasie. Ciò nonostante, forse per non turbare l'animo dei pm e non essere accusate d'essere prone ai desideri del governo, le supreme toghe hanno scelto di non scegliere, emettendo una sentenza che fa calare il sipario non solo sulle pendenze penali dell'avvocato Mills, ma anche sul processo che a Milano è in corso e che per lo stesso reato si apprestava a giudicare Silvio Berlusconi. Il procedimento che non doveva cominciare si chiude dunque qui, ma rimarrà sempre aperto per chi nella sua testa ha già condannato da tempo il Cavaliere, non per le questioni legate all'avvocato londinese, ma per il solo fatto di esistere e di aver per ben tre volte sconfitto la sinistra. La morale della faccenda è una sola: chi ci guadagna in tutto ciò, in un processo nato morto ma che resterà vivo nella polemica politica? La risposta è semplice: gli unici che se ne avvantaggiano sono i magistrati. Come sempre, da almeno 18 anni. Agli italiani invece spetta di pagare il conto, delle indagini e delle inutili discussioni che queste indagini hanno provocato. Bella giustizia, davvero.

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