l'Editoriale
di Maurizio Belpietro
Distratti dal profluvio di articoli sulle intercettazioni telefoniche e dagli appelli alla vigilanza democratica lanciati dal partito di Repubblica, è probabile che molti italiani non si siano accorti di quel che sta succedendo a Pomigliano d'Arco, provincia di Napoli. Eppure la vicenda è istruttiva perché dimostra come, nonostante la crisi e la globalizzazione, una parte dei rappresentanti dei lavoratori tenga ancora un piede, e forse tutta la testa, nell'Ottocento. La storia in breve è questa: nella regione con il più alto tasso di disoccupazione d'Italia - gli ultimi dati parlano del 13 per cento - il potente sindacato dei metalmeccanici della Cgil ce la sta mettendo tutta per far saltare un accordo che porterebbe investimenti e lavoro nell'area. La fabbrica scenario di tutto ciò è la Fiat, uno stabilimento tra quelli che il gruppo torinese considera a rischio. Da quando esiste, ovvero dal 1968, non è un fiore all'occhiello, tant'è che gli impianti non hanno mai funzionato a pieno regime. Oggi da Pomigliano escono in media 40 mila vetture, ma se ne potrebbero fabbricare 300 mila. Che fare dunque di un'azienda simile? In tempi di vacche magre come quelli attuali, la risposta più semplice sarebbe: si chiude e si porta la produzione altrove, in Paesi in cui costa meno. È ciò che sta accadendo per esempio a Termini Imerese, comune siciliano da cui la Fiat ha deciso di levar le tende perché assemblare auto nell'isola non è conveniente. Nel caso campano invece Marchionne ha proposto di investire 700 milioni di euro e di trasferire a Pomigliano la nuova Panda, garantendo il posto di lavoro a tutti e, anzi, lasciando intravedere anche future assunzioni. In cambio chiede che il sindacato firmi un'intesa che consenta gli straordinari e scoraggi l'assenteismo. Apriti o cielo: la Fiom, i duri e puri della Cgil, si è messa di traverso, sostenendo che si vogliono togliere diritti ai lavoratori e addirittura violare la Costituzione. In pratica la Fiat ha chiesto di portare a 120 ore il tetto di straordinario nel caso ci sia bisogno di produrre di più e di disciplinare in maniera rigida una materia come quella delle assenze, evitando di dover pagare chi sta a casa quando c'è la partita o si vota. Il tutto è dovuto al fatto che quando il Napoli gioca di mercoledì i certificati di malattia fioccano e le assenze da una media del 5 % salgono fino al 30. Defezioni in catena di montaggio che non sono da meno in tempo di elezioni: alle Politiche del 2008, su 4600 dipendenti, 1600 si dichiararono impegnati coi seggi. Qualsiasi persona di buon senso capirebbe che nessuno investe in un'azienda dove la produzione è soggetta al campionato o all'apertura delle urne. Ma quelli della Fiom no: per loro che la Fiat chieda agli operai di lavorare e di non andare allo stadio è una pretesa che viola i diritti dei lavoratori e anche quelli costituzionali. Fa niente che questo significhi lavoro per l'intera aerea né che in caso di straordinario i dipendenti percepiscano tremila euro in più l'anno. E neppure li sfiora il dubbio che a forza di tirare la corda qualcuno si possa stancare, scegliendo di trasferire l'impianto dove non ci sono questi problemi. Ai metalmeccanici della Cgil l'esempio della Chrysler non ha insegnato niente: che i sindacati americani della consociata Fiat abbiano accettato di chiudere stabilimenti, riducendo stipendi e assistenza previdenziale non cambia le loro convinzioni. Aveva ragione Savino Pezzotta, l'ex segretario della Cisl, che quando lasciò l'incarico mi confidò: alcuni miei colleghi non hanno capito che è tutto cambiato e continuano a comportarsi come se non fosse successo niente. Quando le fabbriche chiuderanno e se ne andranno all'estero, che faranno? Gli operai li porteranno al lavoro con un charter?