L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Ieri Repubblica titolava: «Giornali in sciopero per difendere la libertà d'informare». Tradotto, significa che il quotidiano di Ezio Mauro e gli altri che oggi non sono in edicola hanno deciso di non informare i propri lettori in nome del diritto all'informazione. Una scelta che mi ricorda molto quei mariti i quali si tagliano gli attributi per protesta contro la moglie che non si concede. Mettersi il bavaglio per contestare il bavaglio non è un'idea furba, soprattutto se il destinatario della rimostranza trae beneficio dell'azione che lo dovrebbe contrastare. Il danno dello sciopero infatti non lo patisce il governo contro cui è rivolto, ma i lettori, i quali se comprano Repubblica sono già convinti che la legge sulle intercettazioni sia sbagliata. Dunque perché imporre a tutti una giornata di silenzio? «Per parlare», ha risposto ieri la cronista giudiziaria del Corriere della Sera. Basterebbe questo a spiegare che molte testate italiane hanno perso la testa e con loro anche il sindacato dei giornalisti, il quale dell'iniziativa odierna è promotore. Sull'argomento abbiamo già scritto fiumi d'inchiostro, ma visto che le intercettazioni sono oggi l'argomento del giorno, vediamo di riepilogare la questione. I colleghi che incrociano le braccia si lamentano perché la nuova legge nega ai cittadini il diritto ad essere informati. Ma i cittadini hanno diritto di sapere se tizio e caio hanno commesso un reato, non di conoscere la loro vita privata, quasi sempre ancora prima che sia stabilita la loro colpevolezza. Però a molti cronisti giudiziari e ai loro direttori importa poco. Ciò che li interessa davvero è solo lo scoop e per questo sarebbero pronti a vendersi l'anima, figuratevi la privacy o il principio di innocenza di qualcuno. È civile tutto ciò? No, non lo è. E infatti negli altri Paesi non accade. In Gran Bretagna o in Germania, nonostante quanto raccontano tanti colleghi che si fingono informati, non esiste il mercato delle carte giudiziarie e dei brogliacci che imperversa da noi, perché le fasi preliminari di un processo sono coperte da segreto, esattamente come si vorrebbe fare in Italia. Solo quando si arriverà in tribunale gli atti - e non tutti - diverranno pubblici. Prendete il caso di Danilo Restivo, l'uomo di Potenza arrestato in Inghilterra perché sospettato di essere un assassino. Nessuno ne ha saputo nulla. La polizia ha confermato d'averlo incriminato per l'omicidio di una sarta, ma non una intercettazione né i risultati di una perizia sono finiti sui giornali, i quali non hanno gridato alla censura neppure quando, com'è abitudine, il prosecutor, l'equivalente del nostro pm, ha diffidato i media dal pubblicare notizie riguardanti il caso. Della faccenda, ovviamente, si potrà parlare quando ci sarà il processo e se qualche cronista violasse le regole rischierebbe d'essere incriminato per intralcio alla corte. Per questo gli inglesi si sentono meno liberi? O i cronisti sono impediti di fare il proprio mestiere? No, semplicemente si evita che una persona, da ritenersi fino a prova contraria innocente, sia sputtanata a mezzo stampa prima che la giustizia abbia fatto il suo corso. Il problema non riguarda solo gli innocenti ingiustamente sbattuti in prima pagina, ma anche i motivi per cui ciò accade. I lettori infatti ignorano che dietro alla pubblicazione di un verbale c'è spesso un commercio o degli interessi inconfessati, a volte di carriera, altre volte politici. Sentite cosa scriveva anni fa un segretario della Fnsi, la stessa associazione che oggi protesta: «Non c'è dubbio che il barbaro rito sacrificale che inonda quotidiani e settimanali di mostri a volte incolpevoli e di emozioni spesso soltanto esagitate, si celebra - prima ancora che nelle redazioni - dentro quello sfrenato e perverso mercato degli scoop e delle rivelazioni incontrollate che nell'Italia dei segreti trova una smodata espansione a fini di lotta politica o di lotta per bande, anche ad altissimi livelli istituzionali». Piero Agostini sosteneva tutto ciò quando il Cavaliere non si era ancora affacciato sulla scena politica e nelle redazioni si sentiva la preoccupazione di essere usati o di diventare inconsapevolmente strumenti di una lotta fra fazioni. Altri tempi. Mani pulite non era ancora scoppiata e il Paese non era spaccato in due, tra berlusconiani e antiberlusconiani. Dunque perfino un furbacchione come Paolo Mieli, che poi nel 1992 trasformò il Corriere nel megafono delle procure, poteva scrivere che a soffiare abitualmente i segreti alla stampa erano i giudici. «Lo fanno», spiegava nel 1984, «perché sanno che il cronista li ricompenserà descrivendo sempre il loro operato come una coraggiosa sfida al potere costituito. Perché sono sicuri che, una volta aperto un canale con i giornali, questi - pur di non vederselo improvvisamente ostruito - saranno pronti a perdonare e a passare sotto silenzio eventuali passi falsi della loro Gola profonda. Perché sperano che, in caso di necessità, il giornalista si presti a far trapelare notizie che danneggiano i loro concorrenti o avversari». Basta per capire che la pubblicazione delle intercettazioni e degli atti di indagine non è né un gesto di trasparenza né un servizio alla giustizia? Per me sì. Ma se qualcuno ha dubbi, ecco il testo di un altro collega importante, che nei giornali e nel sindacato di categoria ha lasciato qualcosa. «Il problema è di essere coscienti della strumentalizzazione che si subisce e che si attua. Le notizie di padre ignoto non servono perché, al lettore che si offre un'informazione, si deve anche fornire gli elementi che consentano l'identificazione della fonte che ha diffuso in quel momento quella notizia. Se non si compie questo atto i giornali rischiano di diventare strumenti per guerre combattute per conto terzi». Parola di Walter Tobagi, inviato del Corriere assassinato da un commando terroristico di estrema sinistra. Mi fermo qui, ma credo di essermi spiegato. Devo solo un riconoscimento: gran parte delle citazioni non è farina del mio sacco. Le ha scovate Antonello Piroso, l'ex direttore di La 7 che si è lasciato rimuovere una settimana fa dal tg che dirigeva senza gridare al complotto, al contrario di altri colleghi che atteggiandosi a martiri si sono fatti un'assicurazione sulla vita professionale. A Piroso va la mia stima, anche per ciò che ha scritto a proposito dei giornali trasformati in buche delle lettere dei pm. Buono sciopero.