l'Editoriale
di Maurizio Belpietro
I lettori mi perdonino se torno a occuparmi del caso di cui sono stato involontario protagonista una settimana fa, ma vi sono costretto per sgombrare il terreno dal sospetto di essermi sparato da solo. O meglio: di aver fatto esplodere tre pistolettate nell'androne del palazzo in cui vivo per poi potermi atteggiare a vittima del terrorismo. Questa è infatti la sottile infamia che qualcuno cerca di accreditare, spargendo ombre e sospetti d'ogni genere, al fine di dimostrare che la persona armata messa in fuga sulla porta di casa mia da un agente della polizia, fosse un fantasma. Anzi, una bufala, come anche ieri è stato insinuato durante la trasmissione di Michele Santoro. Tutto ciò prende le mosse dalla constatazione che l'attentato non è andato a segno. Non essendoci spargimento di sangue, né un cadavere, gli scettici suppongono si tratti di una messa in scena e, pur riconoscendo che in tal caso io sarei ugualmente la vittima, si preoccupano di spargere perplessità. Perché il presunto terrorista non si è nascosto meglio e si è fatto beccare dal poliziotto? Perché l'arma usata contro il caposcorta ha fatto cilecca? Perché il delinquente è riuscito a fuggire? Gli interrogativi sono posti con tale insistenza da parere che i critici si chiedano come mai i terroristi abbiano fallito e non siano riusciti nel loro intento. Insomma, per sciogliere tutti i loro dubbi, avrei dovuto farmi proprio sparare, rinunciando a quel briciolo di fortuna che ogni tanto mi dà una mano. I più sospettosi pare quasi si domandino perché non ci siano più gli estremisti di una volta, quelli che andavano a colpo sicuro, aspettando le loro vittime nell'ombra del palazzo in cui abitavano e sparando loro alle spalle. Tutti questi superesperti di criminalità politica, questi cacciatori di ombre, paiono aver dimenticato gli esordi degli anni di piombo. A torto il debutto molti lo fanno risalire al 17 maggio del 1972, quando un commando di Lotta continua assassinò sotto casa il commissario Luigi Calabresi. In realtà le prove generali si fecero qualche mesetto prima, il 22 marzo di trentotto anni fa. Maurizio Pedrazzini, un militante di Lc ammazzato anni dopo durante una rapina, aspettò sulle scale il capo dei fascisti milanesi, l'avvocato Franco Servello. Avrebbe dovuto ammazzarlo sparandogli mentre usciva di casa, ma per il nervosismo gli scappò un colpo e finì arrestato. Un terrorista pasticcione? Probabilmente, ma non meno pericoloso degli altri che lasciarono una lunga scia di sangue sulle strade e nelle portinerie di questo Paese. Come vedete non voglio entrare nel dettaglio dell'episodio di cui probabilmente ero la vittima predestinata. Non facendo l'investigatore, è un esercizio che lascio volentieri a chi lo fa di mestiere. Mi limito solo a un altro paio di annotazioni. La prima è dedicata all'agente che ha sparato, un poliziotto professionista che da anni si occupa dell'incolumità di persone a rischio. Nel suo curriculum c'è un episodio analogo a quello che mi riguarda. Nel '95 mise in fuga un tipo che pare intendesse far la pelle a Gerardo D'Ambrosio, il procuratore che indagò su Pinelli e Piazza Fontana, oltre che su Tangentopoli. Proprio questa faccenda ha spinto i dietrologi a domandarsi come sia possibile che la stessa persona, a quindici anni di distanza, sia riuscita a sventare un altro attentato. Lo stesso D'Ambrosio, divenuto senatore del Pd, si è messo a insinuare dubbi sul suo salvataggio. Ovviamente ognuno è libero di farsi tutte le domande che vuole, mi chiedo solo perché l'ex pm le perplessità se le sia tenute per se così a lungo e non le abbia manifestate all'epoca. Come mai, se era incredulo di fronte alla ricostruzione del poliziotto, lasciò che questi venisse premiato con lode? Non poteva passar parola dei suoi sospetti al procuratore che indagò sulla faccenda e che, guarda caso, aveva l'ufficio due stanze più in là? Ma, se non si fidava della versione dell'agente e non voleva confessare i suoi dubbi al collega, non poteva almeno parlare con i suoi quattro fratelli, i quali invece all'uomo di scorta credettero a occhi chiusi, al punto di giurargli gratitudine eterna su una targa appositamente fatta incidere e che pubblichiamo qui di lato? Ho come la sensazione che in questa faccenda, di losco ci sia soltanto l'atteggiamento di politici e colleghi, i quali non si rassegnano di fronte al fatto che nel mirino sia finito un giornalista di area centrodestra. Fosse stato di sinistra, probabilmente avrebbero parlato di servizi deviati e di sicari di palazzo e altro. Trattandosi di uno che non sta dalla loro parte, aspetto non secondario che impedisce di addebitare l'agguato sulle spalle del governo, preferiscono minimizzare, anzi, cancellare. Vedrete, tra poco certi giornali riesumeranno il linguaggio usato negli anni settanta nei confronti del terrorismo rosso. Immagino dunque che presto sarò definito sedicente vittima. E a proposito di ritorni, ieri la mia attenzione è stata colpita da un titoletto dell'Unità. Nella rubrica delle lettere campeggiava «L'inconscio di Belpietro», sotto il quale lo psicoterapeuta Luigi Cancrini si preoccupava della mia salute mentale, suggerendo un trattamento terapeutico. Di che cura si tratti non faccio fatica a immaginare. Già ai tempi dell'Unione sovietica, gli stalinisti curavano gli oppositori e gli intellettuali poco allineati negli ospedali psichiatrici. I comunisti forse non ci saranno più, ma le loro vecchie abitudini ritornano. Così come si ripropone un altro antico sport della sinistra giudiziaria, ovvero dar la caccia ai giornalisti che di sinistra non sono. Leggo dell'incredibile inchiesta contro direttore e vicedirettore de Il Giornale, Alessandro Sallusti e Nicola Porro. L'accusa è inverosimile. Assai più verosimile invece che abbiano dato fastidio, ma questo è un problema che ci accomuna, loro e noi. A non avere tessere progressiste in tasca siamo pochi e tanti vorrebbero levarci di mezzo.