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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Giorgio Napolitano ha dimostrato ieri di non aver gradito le nostre parole di critica a proposito del suo interventismo politico. Martedì, in un editoriale, ci eravamo permessi di sostenere che il profluvio di discorsi in materie le quali, Costituzione alla mano, non gli competono, dimostra una sola cosa: ossia che del ruolo del presidente della Repubblica vi è stato nel corso degli anni un abuso e dunque una riforma per ridefinirne i compiti è più che urgente. Non lo avessimo mai scritto. Mezzo Pd, svegliato dal lungo sonno in cui è precipitato da quando a guidarlo è Pier Luigi Bersani, è stato indotto a difendere il capo dello Stato. In rapida successione si sono espressi il presidente dei senatori Finocchiaro e il suo vice Zanda, il vicesegretario del partito Letta e il vicepresidente del Senato Chiti. Tutti più o meno con frasi che parevano un copia e incolla, in cui si definivano inaccettabili e ingiustificate le critiche al presidente. La capa del Pd a Palazzo Madama si è addirittura spinta a ipotizzare pressioni indebite sul Quirinale, accusando Libero di strumentalità politica e mettendo in dubbio il diritto di cronaca, ma ancor più quello di opinione. Che lo stato maggiore del gruppo d'opposizione fungesse da termometro dell'umore di Napolitano lo si è capito in serata, quando il Colle, come usa fare nei momenti gravi, ha deciso di diffondere una nota ufficiale, bollando alla stregua di ingiustificabili speculazioni gli appunti al suo discorso sui tagli alla cultura e negando intenti di carattere politico, ma confermando che ogni intervento è compiuto rispettando i poteri propri del capo dello Stato. Ovviamente, siamo dispiaciuti di aver causato l'irritazione del presidente, ma purtroppo è difficile credere che Napolitano parlando ad attori e registi non alludesse all'attualità e non lo facesse per ingraziarsi gli uomini di spettacolo, i quali proprio il giorno prima avevano protestato contro la Finanziaria. Del resto, al riguardo i titoli dei quotidiani ieri erano inequivocabili: «Non si risanano così i conti pubblici» (La Stampa); «Servono tagli rigorosi, ma senza mortificare la cultura» (La Repubblica), «I tagli alla cultura: Mortificarla non risana i conti» (Il Corriere). I colleghi hanno tutti preso un abbaglio o sono al pari nostro speculatori, anche se non si sono permessi di biasimare il comportamento del presidente della Repubblica? No, l'inquilino del Colle quelle parole le ha dette e ogni riferimento ai tagli di Tremonti era puramente intenzionale. Difficile infatti che un uomo in politica da quando aveva i calzoni corti non si sia reso conto che attaccando le misure di contenimento della spesa toccava un argomento di cui si discute in questi giorni, intervenendo a gamba tesa su una questione di pertinenza del governo. Napolitano si è dunque pentito dopo aver parlato? Neanche quello. Semplicemente il presidente non ama che qualcuno lo riprenda, perché interpreta il proprio ruolo al pari di un sovrano, le cui parole e i cui atti non possono essere sindacati né sospettati di voler condizionare il governo. La cosa naturalmente stupisce. Innanzi tutto perché avviene il giorno dopo che il presidente del Consiglio è stato dileggiato in una trasmissione del servizio pubblico. Il conduttore di Ballarò, Giovanni Floris, ha infatti trattato Berlusconi non come il capo di un governo legittimamente eletto, ma al pari di un personaggio importuno da cui pretendere con scherno che tolga in fretta il disturbo. Eppure per i toni usati contro il premier durante un programma Rai nessuno dell'opposizione si è lamentato né risulta che a dolersi sia stato qualche ufficio sul Colle. Ma a stupire ancor di più è che le proteste arrivino da chi militò in un partito il quale non si fece problemi a chiedere il ricovero in manicomio di Francesco Cossiga e a far fuggire nella notte un presidente innocente come Giovanni Leone. E, per quanto ci consta, all'epoca non parlò di «speculazioni ingiustificate», ma tacque.

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