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L'editoriale

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di Maria Giovanna Maglie

Andrea Tempestini
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Età della pensione, vendita del patrimonio pubblico, valore legale del titolo di studio, ordini professionali, libertà di licenziamento: parole che ossessionano, da mettere in fila e ripetere come un mantra, contro altre che vengono invece agitate per far vedere rosso come i tori agli italiani e confonderli sulla reale natura del problema. Nel dibattito estenuante perché in buona parte inutile sulla incapacità del nostro Paese di scrollarsi di dosso le ragnatele e riprendere finalmente a crescere e a guardare al futuro, nessuno assolve la classe politica, ma mi piacerebbe accusarla di qualcosa di più corposo e perverso che il ristorante a buon mercato del Senato o l'accesso per primi su aerei comunque scomodissimi. Voglio accusarli oggi e qui di rappresentare insieme ad alcune caste di intoccabili, quella sindacale avanti a tutte, ma anche alcune corporazioni ben rappresentate in Parlamento, e ad alcuni partiti reazionari, quelli di sinistra storicamente, ma anche la Lega di Umberto Bossi oggi e Alleanza nazionale fino a ieri, il freno al risanamento, non per quel che costano ma per quello che si rifiutano di cambiare, e per le reazioni qualunquiste pericolosissime che il loro comportamento scatena nel Paese. Perfino il cosiddetto contributo di solidarietà è più odioso a parole e offensivo per il ceto medio contribuente che vantaggioso in termini economici, stiamo parlando di un miliardo di euro in tutto all'anno, e la sacrosanta abolizione delle Province, per dirne un'altra, avrebbe valore solo perché elimina enti inutili e politici spesso mediocri e truffaldini, non perché quel risparmio si traduca in un pareggio di bilancio sano, di quelli che rimettono in moto un Paese lumaca. Se vi devo accusare, cari politici al governo, voglio farlo mettendo in riga alcune colpe terribili. Spesso il reato è solo di vigliaccheria, ci avete provato, visto le reazioni violente, e vi siete ritirati, ma non è un'attenuante; qualche volta è di incompetenza, dio ci scampi, tanto più che è accompagnata da arroganza e risentimento viperino verso chi osi individuare e raccontare la pecca. Devo dire che guardo con sospetto anche quelli fra i politici della maggioranza che hanno taciuto sulla mancata riforma del fisco per anni e ora che abbassare le tasse è impossibile si mettono in corteo dal sapore revanscista. Dove eravate? Vado per ordine. Tutti e subito dovrebbero andare in pensione a sessantasette anni, e parlo di un età minima, settanta è pure ragionevole, siamo tre anni sotto la media europea. Il popolo italiano è afflitto ormai da una lunghezza di vita quasi insopportabile, campiamo tanto e relativamente bene, spesso ci scoccia pure essere messi da parte, e allora non vedo perché non decidere di continuare a lavorare e dare una mano al futuro di figli e nipoti. Il sistema pensionistico italiano è stato immaginato alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Siccome il tasso di natalità era alto si potevano far pagare le pensioni di chi aveva smesso di lavorare con i contributi dei lavoratori attivi. Dopo pochi anni il tasso di natalità è sceso nettamente e la curva demografica ha rallentato, ma anziché intervenire non si è fatto  nulla. Accanto alle pensioni di vecchiaia hanno preso uno spazio crescente le pensioni di anzianità che, immaginate negli anni cinquanta per alcuni tipi di dipendenti pubblici, sono state estese a tutte le categorie di lavoratori. Nel 2010 su circa trecentomila nuove pensioni, le pensioni di anzianità sono state più della metà. Il mercato del lavoro va  liberalizzato, che vuol dire poter licenziare, che comporta subito poter assumere, dare lavoro ai giovani, rivitalizzare il sistema industriale. Il ministro Sacconi ci ha provato anche di recente, ma al primo abbaio della Cgil e della Camusso tutto è rientrato. La verità resta, le norme che regolano il licenziamento individuale, ai sensi dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, costituiscono un impedimento di rilievo per il mondo delle imprese, un ostacolo all'incremento dell'occupazione, un impedimento per la crescita dimensionale delle aziende e pure un handicap sul versante della competitività, perché l'obbligo di reintegro è previsto soltanto dalla nostra legislazione. Se un datore di lavoro esita prima di procedere ad una nuova assunzione, il sistema non funziona. Gli ordini professionali devono essere sciolti e contemporaneamente abolito il valore legale del titolo di studio. Sugli ordini la levata di scudi dei politici, e segnatamente quelli della maggioranza, è di meno di due mesi fa. Ma per le libere professioni deve valere il principio costituzionale della libertà d'impresa. Da anni infatti le relazioni dell'autorità Antitrust, studi universitari, rapporti statistici, dimostrano che le barriere d'accesso alle professioni, attraverso iscrizioni agli albi, esami di Stato, vincoli tariffari, limiti ai rapporti interdisciplinari, divieto di pubblicità comparativa, provocano  perdita di efficienza del sistema, maggiori costi per i cittadini e un ridotto tasso di innovazione. Nell'istruzione nessuna riforma serve  se non si elimina immediatamente il valore legale del titolo di studio, un orpello tutto italiano. Oggi per essere agevolato ai concorsi pubblici che il “pezzo di carta” sia stato preso in una università ottima o pessima è indifferente, non si valuta la competenza ma il timbro, di qui la corsa all'università più cialtrona, al corso più facile, al professore più disponibile e sessantottino ai vari Cepu e ai mille trucchetti per farsi convalidare crediti. Infine, il patrimonio pubblico inutilizzato, che è enorme, e quello che costa di più di manutenzione di quanto renda in affitto, si deve vendere. Cosa vendere? La scelta è ampia. I cespiti patrimoniali che meglio si prestano a essere ceduti sono le partecipazioni azionarie e gli immobili. Le sole azioni di società, quotate e non, che fanno capo al ministero del Tesoro, sono valutate circa 140 miliardi di euro equivalenti all'8 per cento del Pil italiano. Tra queste sono compresi pacchetti azionari che lo stato ancora detiene in Eni, Enel, Finmeccanica, StMicroelectronics, Terna, Poste, Rai, Ferrovie dello Stato, Sace,  solo per citare le aziende più note. C'è poi tutto il vasto patrimonio immobiliare, con una stima cautelativa, circa 350 miliardi di euro a valore di mercato. È  per la maggior parte posseduto dagli enti locali. Nel caso delle dismissioni di immobili, oltre ad abbattere il debito, si otterrebbe  anche un considerevole beneficio gestionale; gli immobili infatti rendono circa l'1 per cento e costano il 2 per cento. Vendere quindi consentirebbe anche  di ridurre le spese. di Maria Giovanna Maglie

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