L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Non so se sia stata l'inesperienza o la presunzione: a occhio, direi entrambe. Sta di fatto che Mario Monti ha commesso un errore imperdonabile, che ora rischia di costargli il posto. Lo sbaglio sta nell'aver sottovalutato quelle vecchie lenze dei partiti, gente abituata a tutto pur di rimanere incollata alla poltrona e che certo non si rassegna a vedersi sorpassata da un professorino, per quanto celebrato da ogni organo di stampa. Il bocconiano credeva che bastasse la crisi economica e la protezione di Napolitano per rendere i politici inoffensivi e garantirsi un futuro, per sé e il suo governo. Ma appena lo spread si è abbassato, le vecchie cariatidi hanno rialzato la testa. E adesso il presidente del Consiglio rischia grosso, anche di dover fare le valigie e di mandarci a votare a ottobre. La buccia di banana su cui potrebbe scivolare è la riforma del mercato del lavoro, una legge che, così come è stata cucinata, è poco più di un brodino caldo, insufficiente a curare la malattia di cui soffre questo Paese, ovvero la disoccupazione. Ma nonostante lasci le cose come stanno, salvo attribuire ancor più potere ai giudici in materia di licenziamenti, partiti e sindacati l'hanno presa a pretesto per rimettere in riga il premier e fargli abbassare un po' la cresta. Ha cominciato Susanna Camusso, una che ride dinanzi alle freddure di Super Mario, ma poi quando c'è da azzannare non molla. Nata socialista ma convertita per esigenze di segreteria alla corrente massimalista, la capa tosta della Cgil, appena è stato annunciato l'intervento sull'articolo 18, ha schierato le sue truppe, minacciando scioperi e manifestazioni. Nessuno si sarebbe aspettato una simile reazione. Non i leader delle altre confederazioni, i quali erano pronti a sottoscrivere l'accordo con il governo, e nemmeno il segretario del Pd. Pier Luigi Bersani all'inizio era convinto che Camusso avrebbe fatto un po' di sceneggiata sindacale, ma alla fine avrebbe chinato la testa. Le cose sono andate invece come si sa e quando i centralini del Pd hanno iniziato ad essere tempestati di proteste, i vertici del Partito democratico si sono svegliati. All'inizio, probabilmente, nessuno di loro ci aveva pensato: ammansiti dalla moral suasion del capo dello Stato, il segretario e i suoi compagni neppure consideravano l'idea di rispedire il presidente del Consiglio là da dov'era venuto, cioè all'università. Ma poi, mentre montava il malumore, ecco spuntare un pensierino maligno. In fondo, la crisi finanziaria è alle spalle. Lo spread è sceso e la gran parte dei titoli di Stato piazzata. Dunque, si può cominciare a pensare di barattare i licenziamenti facili con il licenziamento di Monti. Il calcio di benservito e le conseguenti elezioni in autunno presenterebbero, almeno per la sinistra, numerosi vantaggi. Tanto per cominciare: ritornare al timone di comando. Da quando il professore è arrivato, i compagni di Bersani sono stati costretti da Napolitano a ingoiare ogni genere di rospo, a partire dalla riforma previdenziale, rinunciando a incassare il dividendo di anni di guida berlusconiana. Anzi: da quando a Palazzo Chigi si è installato l'ex rettore, i vertici del Pd vedono allontanarsi ogni giorno di più la possibilità di raggiungerlo, con il rischio di arrivare esausti alla metà e con gli elettori di centrosinistra in rivolta. In effetti, il bacino di votanti del Partito democratico di motivi per mugugnare ne hanno più d'uno. Prima l'allungamento dell'età pensionabile a 67 anni, poi la sventagliata di tasse che non ha risparmiato i ceti più modesti e che in questi giorni fa sentire i suoi effetti, infine la norma sui licenziamenti. Finora i militanti hanno retto, ma se la modifica dell'articolo 18 passa con i suoi voti, il Pd rischia l'esodo. Rompere con il premier, oltre a evitare il crollo di consensi, consentirebbe di cavalcare lo scontento, con quel che ne consegue. Che il clima sia cambiato se ne deve essere accorto lo stesso Monti, il quale ieri ha alzato la voce facendo balenare l'idea di dimissioni anticipate, assicurando di non avere intenzione di fare l'Andreotti, cioè di tirare a campare. I pugni sul tavolo del premier però ormai non spaventano molto. Non i mercati finanziari, che hanno chiuso invariati. Non i peones del Parlamento, che da quando hanno superato la data per ottenere la pensione sono meno preoccupati. Insomma, il premier è a un bivio: o tira diritto con la riforma, mettendo in conto il rischio di fare le valigie, o fa un passo indietro e si arrende a Pd e sindacati. Certo, con il senno di poi l'articolo 18 era meglio farlo subito insieme con la riforma delle pensioni, quando cioè il timore di un crac spaventava tutti e i partiti non erano in grado di battere ciglio. Purtroppo, con il senno di poi non si fa la storia. A dire il vero, neanche l'inesperienza e la presunzione fanno la storia. Anzi: qualche volta fanno danni. di Maurizio Belpietro [email protected]