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La vera ceramica di Castelli, oltre il danno d'immagine subìto all'estero

I media americani hanno dato ampio spazio alle critiche piovute sul presepe in Piazza San Pietro

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Bene o male, purché se ne parli? Forse. Certo è che il nome della ceramica di Castelli (paese vicino Teramo) è circolato a livello internazionale solo per le critiche massicce e tremende che si è attirato il presepe postmoderno del ’65 scelto dal Vaticano per Piazza San Pietro. Ne abbiamo parlato qui e qui. Un recente articolo ha perfino evidenziato delle evidenti analogie tra l’iconografia dell’angelo e quella di Osiride (notare quella strana X sul petto) ed è venuta fuori persino  una petizione per chiedere il ritiro dell’opera, qui: https://www.citizengo.org/it/184084-riportare-le-tradizionali-statue-di-gesu-giuseppe-e-maria-nel-presepe-di-piazza-san-pietro

Negli Stati Uniti, hanno ripreso la notizia il New York Times, che ha riferito delle critiche “dei conservatori”, la Cnn, che ha fatto altrettanto, ovviamente con maggiore equidistanza, e il New York Post, per il quale, invece, il presepe è decisamente brutto ed è stato un flop.

Resta il fatto che Castelli ha fatto il giro del mondo per un’opera definita in molti commenti “satanica”, “massonica”, “esoterica” e che, in ogni caso, non rispecchia affatto il motivo per cui la cittadina abruzzese è entrata a pieno titolo nella storia dell’arte mondiale.

In questo senso si può parlare di un DANNO DI IMMAGINE provocato dalla scelta del Vaticano per una perla della ceramica italiana, famosa non certo per le suggestioni esoteriche e primitiviste, le innovazioni formali, o per la produzione di giganteschi pupazzi totemici, ma per essere stata depositaria, attraverso i secoli, del buon gusto, della più squisita raffinatezza plastico-decorativa, di una perizia tecnica che attinge a una sapienza quasi “alchemica” dei materiali. Castelli è, soprattutto, nota per aver accolto la grande pittura sulla maiolica, mantenendo questo primato per almeno tutto il ‘700.

Un peccato, quindi, che abbia ricevuto l’attenzione del mondo per un lavoro così controverso, anche perché la storia della maiolica di Castelli è stata riscoperta, nella sua straordinaria ricchezza, relativamente da poco tempo: fino a pochi decenni fa, dominavano i centri di Faenza e Urbino, solo di recente si è compreso che vari capolavori, tra cui alcuni conservati al British Museum di Londra, all’Ermitage di San Pietroburgo e al Metropolitan di New York provenivano invece dal minuscolo borgo alle pendici del Gran Sasso, svelatosi un centro di produzione fiorentissimo e apprezzatissimo fin dal ‘500.

Ad esempio, solo recentemente è stato possibile attribuire un celebre corredo farmaceutico cinquecentesco noto con il nome di Orsini-Colonna al vasaio Orazio Pompei di Castelli. E ciò è stato possibile grazie ad alcuni frammenti rinvenuti proprio al di sotto della sua abitazione che ancora oggi reca l'iscrizione sulla porta d'ingresso: Questa è la casa del vasaio Orazio. Per lungo tempo, infatti, le maioliche erano state assegnate al centro di Faenza. In realtà fu commissionato al maestro castellano per la fine delle ostilità tra due le due potenti famiglie romane che, a metà del secolo, si imparentarono suggellando una pace ricordata in uno dei vasi: “Et sarrimo boni amici”.

Stessa sorte occorse ad un altro celebre servizio da tavola commissionato dal cardinale Alessandro Farnese il Giovane, le cosiddette “turchine”: un raffinatissimo vasellame coperto di uno smalto blu cobalto e decorato in oro realizzato negli anni '70 e '80 del Cinquecento, anch'esso assegnato per lungo tempo al centro di Faenza. Campeggiano sui piatti gli stemmi dei Farnese, una delle più potenti famiglie europee dell'epoca: sotto il galero cardinalizio a sei nappe, compare, al centro del piatto il blasone di Alessandro con i sei gigli blu in campo oro, circondato da fiori, ghirlande e racemi in oro. Un gioiello ottenuto a caro prezzo, dato che la tecnica del “terzo fuoco” per smaltare il metallo prezioso comportava un’alta “mortalità” dei pezzi, che si spaccavano facilmente durante e dopo la cottura.

“Si tratta di oggetti che ci narrano della trasformazione del gusto negli uomini del Cinquecento – spiega l’archeologo Luca Pesante, esperto in ceramica antica - la maiolica rappresenta un nuovo segno di modernità e, nonostante il suo valore fosse infinitamente inferiore rispetto a quello dell'argento, le tavole delle principali corti italiane si coprono di meraviglioso vasellame in ceramica. E i maestri di Castelli erano perfettamente in grado di tradurre questo cambiamento del gusto in oggetti della vita quotidiana. Ancora oggi potremmo dire che questa bellezza rimane intatta ai nostri occhi, essendo quella della maiolica forse l'unica forma d'arte antica che ci tramanda i suoi oggetti con gli stessi identici colori che si potevano osservare al momento in cui furono realizzati secoli fa”.

Colori sapientemente macinati e mescolati da botteghe spesso a conduzione familiare come De Dominicis, Fuina, Gentili, Grue, Pompei, che trasmisero di padre in figlio i segreti di questa arte preziosa.

Nonostante i deragliamenti ideologico-stilistici degli anni ’70, ai quali si può ascrivere il presepe di Piazza S. Pietro, la tradizione ceramica di Castelli produce ancora capolavori ispirati a un Bello senza incertezze e senza compromessi, che non impone l’appartenenza a una particolare ideologia e non costringe i fruitori ad ardite interpretazioni concettuali, ma lascia negli occhi solo … MERAVIGLIA.

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