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La dimenticata "Concessione" di Tientsin: il gioiello coloniale italiano in Cina

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

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Un paese comunista che restaura con cura una torre dotata di enormi fasci littori? Non è una scena tratta da una serie ucronica alla “The Man in the High Castle”, ma è successo davvero nella nostra ex-colonia di Tientsin, in Cina, la dimenticata “Concessione italiana” che, nel 2021, compie 120 anni.

Già dal 1868, l’Italia, seguendo - come al solito in ritardo - l’esempio degli altri paesi occidentali, aveva allacciato relazioni diplomatiche con la Cina grazie al viaggio della pirocorvetta “Magenta” comandata dal capitano Vittorio Arminjon. Tuttavia, già da qualche tempo erano presenti a Shangai commercianti italiani e, soprattutto, missionari gesuiti, i quali però – come spesso accadde nella storia dell’ordine - non seppero farsi ben volere da una popolazione locale ferocemente attaccata alle proprie tradizioni.

Anche per questo, nel 1900, esplose la Guerra dei “Boxer”: costoro erano lottatori cinesi di Kung-Fu che, sobillati da organizzazioni popolari, si ribellavano in modo violento a ogni tipo di infiltrazione occidentale. Il Regno d’’Italia, con altri otto paesi, inviò per proteggere i missionari, un contingente di 46 Bersaglieri di Marina tra i quali fu ucciso il sottotenente Ermanno Carlotto.  

Sedata la rivolta, nel 1901 l’imperatrice vedova Cixi, in premio, concesse ai paesi dell’”Alleanza delle otto nazioni” dei terreni sul fiume Hai-He per uso commerciale. L’Italia ottenne solo 46 ettari: una sorta di pantano usato dai locali come discarica e cimitero, ma situato in posizione strategica, sul fianco del porto. Grazie al primo piano regolatore realizzato dal tenente del genio Osvaldo Cecchetti, cominciarono a sorgere strade, palazzi, chiese, caserme, monumenti, banche, perfino una stazione del telegrafo.

Dopo la vittoria nella Grande Guerra, l’Italia poté inglobare anche l’area dell’Austria-Ungheria ormai sconfitta. Nell’arco di quattro decenni, fino al 1943, i nostri connazionali faranno di questa Little Italy orientale un vero gioiello architettonico. Nella “Concessione aristocratica” – come fu chiamata - vi andarono a vivere importanti personaggi autoctoni come il drammaturgo Cao Yu e il presidente Li Yuanhong.

I cinesi, con lungimiranza, hanno conservato fino ad oggi pressoché intatto questo straordinario palinsesto di stili, che va dall’umbertino, al Liberty, al modernismo alla Basile, per culminare nelle più audaci e imponenti costruzioni razionaliste di epoca mussoliniana come il palazzo del Forum (dotato, appunto, di quattro fasci sulla torre) e la Casa degli Italiani.

Fu soprattutto durante il Ventennio che la Concessione esplose a livello edilizio divenendo un avamposto del buon gusto, della scienza costruttiva, dell’eleganza e della tecnologia made in Italy. La cittadella, delle dimensioni del quartiere Parioli di Roma, per intenderci, era al centro di scambi commerciali e diplomatici di alto livello e per questo gli Italiani, fin dall’inizio, avevano portato civiltà e buongoverno, creando un corpo di Polizia con personale autoctono. I militari di stanza, poi, assicuravano la pacifica convivenza tra occidentali (600 italiani e 700 europei)  e i 6000 cinesi che vi vivevano volentieri al riparo dalle lotte feudali che imperversavano nella Cina rurale.

Una colonia, quella di Tientsin, che era stata elargita - non conquistata con la forza - nella quale i nostri connazionali pagavano le materie prime da importare con una certa equità, a differenza degli altri paesi "ospiti".

Garante della pace e dell’ordine fu, per anni, il Battaglione San Marco sulla cui storia va citato il volume “Il San Marco, in Cina. Memorie dal 1868 al 1946” di Sergio Jacuzzi che documenta iconograficamente le navi utilizzate per il trasporto dei fanti di marina, ma anche tutto il movimento commerciale e militare creato dagli italiani in quel periodo. Il volume spiega anche come il Battaglione fosse il primo a ricevere gli equipaggiamenti più moderni per pubblicizzarli in sede internazionale. E’ il caso dell’ottimo elmetto M 33, ad esempio, il nuovo modello che sostituì l’Adrian di derivazione francese e che rimase in dotazione fino agli anni ‘90.

All’inizio della Seconda guerra mondiale, con la Cina invasa dai giapponesi, il San Marco rimase confinato all’interno della Concessione, piuttosto tagliato fuori dalle comunicazioni col mondo esterno. Con l’8 settembre ’43, solo pochi militari scelsero di restare col Re e furono imprigionati dai giapponesi, mentre gli altri, avendo optato per la Rsi, vennero rimpatriati nel ’44.

Tutte le concessioni straniere tornarono alla Cina dopo la guerra e vennero tutte rase al suolo per far posto ai grattacieli; solo quella italiana fu salvata e restaurata nel 2012.  

Insomma, quella di Tientsin è una storia scomoda per i sostenitori di quel contro-cliché che, in opposizione allo stereotipo degli "italiani brava gente”, citano meccanicamente i gas in Abissinia, parificando il colonialismo italiano a quello smaccatamente predatorio di altri paesi occidentali. No. Senza tirare in ballo presunte superiorità intellettuali o morali nostrane, il semplice fatto che, nella "corsa all'accaparramento coloniale" gli italiani fossero arrivati ultimi fece sì che dovettero accontentarsi dei paesi meno ricchi, civilizzati e progrediti. Per questo motivo fu necessario costruire in loco, dal nulla, infrastrutture che, in vari casi, durano ancor oggi.

Il caso del pantano di Tientsin, fatto fiorire dagli italiani in un gioiello di architettura, dimostra come quella coloniale italiana sia una storia diversa dalle altre, che andrebbe finalmente riscritta “alla giusta temperatura”, intervistando i locali e superando ormai anacronistiche visioni ideologiche.

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