Cerca
Logo
Cerca
+

Enrico Caruso, 100 anni senza il tenore dei tenori: la sua incredibile esecuzione dai "Pagliacci"

In un vinile della prima decade del ‘900

Andrea Cionci
Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Vai al blog
Esplora:
  • a
  • a
  • a

Cento anni fa, dopo mesi di malattia, moriva tra l’affetto dei suoi cari, Enrico Caruso, ad appena 48 anni.

La carriera del tenore napoletano era stata sfolgorante: incominciò ad esibirsi da bambino come contralto nelle chiese partenopee, fino al suo esordio lirico nel 1895.

Sottoponendosi ad uno studio assiduo e rigoroso riuscì a superare alcune criticità legate alla sua voce, rendendone il tono morbido e quasi baritonale una preziosa peculiarità. Divenne così uno dei tenori dal timbro più espressivo e carismatico. Fu il raffinatissimo protagonista di molte opere di compositori come Puccini, Verdi e Mascagni; la sua fama lo condusse negli Stati Uniti dove dominò il Metropolitan di New York dal 1903 sino al 1920, quando fu colpito da un malore.

Raggiunse una fama mondiale anche grazie alle numerose incisioni discografiche contribuendo a rendere il suo personaggio un mito; ancora oggi è considerato uno tra i tenori più grandi della storia, se non il più grande.

Oggi vogliamo farvi ascoltare proprio una di queste gemme preziose, probabilmente registrata intorno al 1908.

QUI

E’ la celeberrima aria “Vesti la giubba”, dai "Pagliacci" di Ruggero Leoncavallo, un compositore gigantesco – il quale scriveva da solo i propri libretti – e che ancora deve essere riscoperto nelle altre opere della sua produzione: una fantastica “Bohème”, in antagonismo con quella pucciniana, “Zazà”, “I Medici” e altre ancora che restano ben chiuse nei bauli in soffitta.

Invece di gettarci avidamente sulla riscoperta di questi capolavori dimenticati, offrendoli al mondo intero, continuiamo a lasciarne ammuffire le partiture nelle biblioteche dei conservatori. Un po’ come disporre di splendidi palazzi antichi, parchi naturali e lasciarli chiusi, invece di aprirli al pubblico (pagante). Va bene, tanto si sa: l’importante è continuare a sconciare quelle quattro opere di grande repertorio con regìe offensive e pazzoidi, perché il mercato vuole questo.

Ma torniamo a bomba: in quest’aria da pelle d’oca, il capocomico Canio, che in un teatrino itinerante interpreta la maschera di Pagliaccio, scopre – grazie alla spiata del pagliaccio cattivo Tonio - che la sua giovane moglie Nedda, da lui a suo tempo raccolta “orfanella in su la via, quasi morta di fame”, lo tradisce col giovane contadino Silvio.

Lo strazio è tale che condurrà Canio a uccidere entrambi proprio sulla scena, in una sovrapposizione – da pelle d’oca - fra la commediola di maschere che si recita e la tragedia greca che si consuma.

Anzi, che ancora non ne hanno ancora cambiato il finale per “istigazione al femminicidio”, come già qualcuno ha fatto con la “Carmen” di Bizet.

Quello di Canio, uomo dal temperamento focoso, è  più di un dolore da marito tradito, è lo strazio del benefattore pugnalato alle spalle, la disperazione di un uomo non più giovane, carico di responsabilità, che si vede surclassato dalle forze della natura e dell’attrazione. E’ anche l’archetipo del pagliaccio cui è vietato il piangere, un po’ lo stesso dramma del Rigoletto verdiano quando canta: “O rabbia!... esser difforme!... esser buffone!...Non dover, non poter altro che ridere!...Il retaggio d'ogni uom m'è tolto... il pianto!...”.


Al di là dell’aspetto vocale di Enrico Caruso, che lascia senza fiato, ciò che colpisce è l’interpretazione, ancora freschissima e di una raffinatezza senza pari, in un perfetto equilibro fra accenti drammatici, “portamenti” leggermente lamentosi, singulti di dolore e rispetto rigoroso dello spartito. Direttori d’orchestra di una volta, che lasciavano la giusta briglia ai cantanti.  Ogni parola che sboccia sulle labbra di Caruso possiede la sua perfetta “intenzione”, in un caleidoscopio di emozioni oscure che si agitano in un uomo il cui destino lo costringe ad andare comunque in scena per fare il buffone, nonostante il cuore spezzato.

“The show must go on”, potremmo dire, non l’ha scritta Freddie Mercury nel 1990, ma Ruggero Leoncavallo oltre un secolo prima.

E a proposito, In occasione del centenario della scomparsa di Caruso, ieri, 2 agosto, dopo una lunga attesa, è stata inaugurata a Napoli la sua casa-museo. Qui sarà possibile immergersi negli ambienti dove Caruso nacque ed abitò da bambino, ammirando molti dei suoi ricordi, come dischi e fotografie, cartoline e caricature. La casa rappresenterà, insieme al Museo Enrico Caruso di Lastra a Signa- sinora l’unico in territorio italiano - un riferimento per i melomani di tutto il mondo, dove saranno esposti anche i cimeli provenienti dall’Enrico Caruso Museum of America di Brooklyn.

Ed ora, ascoltiamo l’esecuzione, leggendo il libretto. Per chi volesse vedere tutta la breve opera “Pagliacci”, QUI una splendida versione cinematografica con un cast spaziale: Vickers, Kabajwanska, Glossop, diretti da Herbert von Karajan:


CANIO

Vesti la giubba e la faccia infarina.

La gente paga e rider vuole qua.

E se Arlecchin t'invola Colombina, ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà!

Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor...

Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol che t'avvelena il cor!

Dai blog