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Vita da rider: i nuovi poveri tra mance e aggressioni

Aggredito e derubato del motorino: la parabola del fattorino 52 enne fotografa una categoria mai troppo tutelata

Francesco Specchia
Francesco Specchia

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

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 Gianni Lanciano il rider aggredito Foto:  Gianni Lanciano il rider aggredito
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Mai rifiutare una consegna di domenica. Mai ribellarti ad un cliente cafone a cui faresti volentieri esplodere il campanello di casa. Mai evitare le consegne all’imbrunire nei gironi infernali delle periferie. Volare sui pedali. Cercare sempre di slalomare tra mignotte e papponi, e balordi violenti, e mai farsi ingoiare dal vorace popolo della notte. Tentare, ad ogni sofferto chilometro, di sudarti quei 10 maledetti euro lordi all’ora, piegato sul manubrio come l’airone Fausto Coppi sul Pordoi, ma senza poter mai illuderti di schiudere le ali. La vita del rider, in Italia, oggi, non è più nulla di questo. Soltanto il simulacro di un’esistenza normale.

La notizia  che ha riempito tutti i tg dell’aggressione a Napoli di Gianni Lanciano, il rider di 52 anni percosso e derubato dello scooter da sei giovanissimi, rappresenta, certo, “una pagina indegna e criminale in un momento così terribile” come afferma il sindaco delle città De Magistris. E la scena del pestaggio di questo disperato padre di famiglia con moglie e due figli, accartocciato su sè stesso e preso a mazzate, ripresa e gettata in pasto a Facebook, be’, stringe il cuore e lo stomaco, fa deglutire vergogna. Ed è encomiabile la successiva gara di solidarietà che è subito scattata -ma dopo la bufera mediatica sollevatasi sul caso- verso l’uomo, padre di famiglia dagli orizzonti occupazionali, diciamo, rarefatti. Una gara accesasi sia per organizzare una raccolta di fondi che gli consenta di comprare un nuovo scooter il suo unico strumento di lavoro, sia per offrirgli “un impiego più adatto a un cinquantenne”. Sempre che oggi, in pandemia e con la moria di posti di lavoro che minaccia da qui aprile, si capisca davvero quale sia l’“impiego adatto per un cinquantenne”. Ma l’aggressione vigliacca al rider sposta solo il problema. Che sono i rider stessi.

 La vita del ciclo-fattorino, spacciata per un mestiere in velocità assai giovane e molto 4.0, in realtà in Italia rappresenta oramai l’ultimo gradino della scala sociale. Servi della gleba in bicicletta. La testimonianza più letteraria del mestiere si legge in Vita da rider – Un blog da rider: “I rider che aspettano una consegna sono seduti su un gradino di pietra. Il cellulare sempre tra le mani fredde… Diventare un rider è stata una conquista di libertà e di identità, perché per fare una consegna servono muscoli, testa e cuore. Poi mi hanno licenziato con un’email e sono sceso in piazza, perché non aveva più senso continuare a lavorare per un’azienda che pensa solo al suo profitto e non anche alle persone che gli permettono di realizzarlo. Le proteste si sono accese ancora di più durante il lockdown. Ma nel mondo post pandemia sono tornato con lo zaino in sella alla mia bici”. E, in effetti la clausura del Covid ha aumentato le tratte dei riders, li ha reso ancor più cavalieri solitari nella steppa delle città. E questo è un po’ romantico. Un po’. Ma la realtà è altra. Nonostante la legge 128/2019 garantisca ora le tutele differenziate e “l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato”, salvo accordi collettivi nazionali coi sindacati, i rider hanno una vita affatto invidiabile.  Più consegnano (e in meno tempo) e più guadagnano. Di fatto il solito “basilare cottimo”. Se riescono a fare un paio di consegne all’ora per tre ore, possono tornare a casa con circa 25 euro in tasca. Le piattaforme di consegna per cui lavorano non garantiscono un numero minimo di consegne: spesso le ore passano con una consegna o due e a volte con nulla di fatto. 

In più c’è l'assurdo algoritmo che disciplina le chiamate. Secondo il giornalista Antonello Mangano l’algoritmo alla base delle app di food delivery non è neutrale: “È pensato per trasformare il lavoro in un gioco crudele che “premia” i lavoratori vulnerabili e bisognosi”. L’algoritmo decide che deve essere premiato il fattorino disposto a tutto. “Tra i tanti esempi possibili: consegnare a notte fonda, sotto la pioggia e nei quartieri a rischio. Un sistema che oggi colpisce soprattutto gli stranieri in difficoltà col permesso di soggiorno, ma che può essere esteso a chiunque”. Il resto è una vita sulla strada per l’inferno, lastricata di buone intenzioni…

 

 

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