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Chiharu Shiota. Il filo invisibile dell’anima
martedì 21 ottobre 2025

Chiharu Shiota. Il filo invisibile dell’anima

Chiharu Shiota. Il filo invisibile dell’anima
Nicoletta Orlandi PostiNicoletta Orlandi Posti è nata e cresciuta alla Garbatella, popolare quartiere di Roma, ma vive a Milano. Giornalista professionista e storica dell'arte, cura su LiberoTv la rubrica "ART'è". Nel 2011 ha scritto "Il sacco di Roma. Tutta la verità sulla giunta Alemanno" (editori Riuniti); nel 2013 con i tipi dello stesso editore è uscito "Il sangue politico": la prefazione è di Erri De Luca. Il suo romanzo "A come amore", pubblicato a puntate su Facebook, ha dato il via nel 2008 all'era dell'e-feuilleton. A febbraio del 2015 è uscito il suo primo ebook "Expo2051". Nel 2016 Castelvecchi ha pubblicato il suo libro "Le bombe di Roma"; nel 2019 è uscita la seconda edizione. Sta lavorando a una trilogia dedicata ai misandricidi dal titolo "Ragazze di Buttiga". Il titolo del blog è un omaggio al saggio del prof Vincenzo Trione.
4' di lettura

Rendere visibile ciò che non lo è: la paura e la gioia, il dolore e la memoria. È questa la sfida di Chiharu Shiota, alla quale il MAO di Torino ha dedicato la prima retrospettiva monografica in Italia The Soul Trembles, un percorso che si muove sul confine tra la materia e l’invisibile, dove le emozioni prendono forma in un intreccio di fili tesi nello spazio come se volessero trattenere il respiro. Le sue installazioni – rosse, nere, talvolta bianche – sembrano inseguire una dimensione onirica in cui tutto è unito da un filo sottile: il segno che lega l’umano all’universale, la presenza all’assenza. In queste trame sospese si riflettono i temi che attraversano tutta la sua ricerca: la vita e la morte, la fragilità e la resistenza, l’incontro e la perdita. È come se Shiota ci invitasse a camminare dentro la materia dei sentimenti, dentro quella zona di confine dove realtà e sogno si confondono. L’artista cita il filosofo cinese Zhuang Zhou, vissuto più di duemila anni fa, che racconta di aver sognato di essere una farfalla e, al risveglio, di non sapere se fosse l’uomo ad aver sognato la farfalla o la farfalla a sognare lui. In questo dubbio antico si riflette la visione di Shiota: un mondo interconnesso, dove ogni gesto è conseguenza e causa, dove la percezione non ha un solo verso. Come nell’“effetto farfalla” evocato da James Gleick nel suo Caos, dal minimo accadimento possono nascere mutamenti profondi tra ordine e disordine.

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Nata a Osaka nel 1972, allieva di Marina Abramović, Shiota ha costruito un linguaggio che sfida la categoria, rifiutando di essere definita “artista giapponese” o “artista donna”. Dal 1996 vive in Germania, in un dialogo continuo tra culture che non si annullano ma si contaminano. «Mi sono sempre sentita nel mezzo», ha detto, «tra la mia origine e il luogo in cui vivo, tra la mia memoria e ciò che ancora non conosco».  In questo equilibrio precario tra l’essere e l’apparire, Shiota tesse fili che diventano corde d’anima. Lo spazio si trasforma in una trama viva: non solo da guardare, ma da attraversare. Le sue grandi installazioni – veri organismi pulsanti – avvolgono lo spettatore, lo costringono a muoversi con cautela, a piegarsi, a sollevare lo sguardo. L’esperienza è tanto fisica quanto interiore, come se la memoria collettiva e quella individuale si fondessero in una sola vibrazione. 

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La mostra di Torino, curata da Mami Kataoka, direttrice del Mori Art Museum di Tokyo, e da Davide Quadrio, direttore del MAO, raccoglie l’intero percorso dell’artista, dall’esordio alla maturità. Le opere arrivano a Torino dopo aver attraversato il mondo – da Parigi a Shanghai, da Busan a Brisbane – ma qui trovano una nuova vita, dialogando con l’architettura del museo e con le collezioni di arte asiatica. The Soul Trembles diventa così un’unica grande installazione che invade le sale come un respiro, un paesaggio emozionale che sembra cambiare insieme a chi lo attraversa.

Al centro del percorso, un pianoforte bruciato. È la memoria di un trauma infantile: Shiota aveva nove anni quando vide uno strumento simile, distrutto dalle fiamme nella casa dei vicini. Quel pianoforte, ridotto al silenzio, ritorna in diverse sue opere come una ferita che si fa musica muta, come la materializzazione del ricordo. In In Silence, ad esempio, lo strumento e le sedute di un pubblico invisibile sono avvolti da una fitta rete di fili neri: una sinfonia di assenze, dove il suono è sostituito dal silenzio della memoria.

In una delle sue opere più celebri, The Key in the Hand, presentata alla Biennale di Venezia del 2015, oltre cinquantamila chiavi provenienti da tutto il mondo pendevano da una nuvola di fili rossi sopra due barche di legno. Chiavi donate da mani anonime, ognuna legata a un ricordo, a una casa, a un corpo. È una delle immagini più potenti della sua poetica: l’idea che la memoria degli altri, come un filo, possa attraversarci, unire destini, rendere visibile ciò che credevamo perduto.

In fondo, tutta la sua arte è un tentativo di disegnare l’assenza. Ogni filo, ogni nodo è una domanda sulla presenza, sul tempo, sull’essere. Ciò che resta sospeso nello spazio non è solo materia, ma pensiero: un pensiero che vibra. E se, come scriveva Zhuangzi, non sappiamo mai se siamo noi a sognare o se è il sogno a sognare noi, allora l’opera di Chiharu Shiota ci restituisce quella vertigine: la certezza che il visibile non basta. Che il mondo è una rete di connessioni invisibili, e che in ogni nodo, in ogni filo che trema, c’è un frammento della nostra anima.

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