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Tra Scalfari e "Repubblica" sta finendo a manettate

Regolamento di conti interno tra giustizialisti: le creature di Barbapapà contro Napolitano e il direttore ed è psicodramma

Nicoletta Orlandi Posti
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  di Francesco Borgonovo Da un certo punto di vista è una guerra dei padri contro i figli, anzi, viste le età in gioco, dei nonni contro i nipoti e pure dei nonni tra di loro. La Scalfarimachia è una battaglia dai toni omerici, in cui  l'aria si riempie del clangore delle manette lanciate contro gli scudi. Da un'altra prospettiva, tuttavia, è la messinscena tristanzuola di un universo che va in pezzi, lacerato da una sfida  i cui protagonisti si prendono a cartellate nel tentativo disperato di difendere ciascuno la propria conventicola. Incrina il cuore vedere Eugenio Scalfari - in testa l'elmetto absburgico degli anni verdi -  asserragliato nella ridotta quirinalizia a sparare con lo schioppo per difendere Giorgio Napolitano, nella speranza che gli regali più prima che poi  lo scranno di senatore a vita.   Ci siamo commossi, domenica, a leggere il suo sterminato editoriale su Repubblica (commozione di breve durata, visto l'immediato sopraggiungere del sonno). Trattavasi di drammatica filippica indirizzata al giurista Gustavo Zagrebelsky - tu quoque, Gustavo! - reo di aver dichiarato, a proposito della trattativa Stato-mafia, qualcosa di sgradito al presidente della Repubblica, ma, soprattutto, utile alle argomentazioni dei principali nemici di Scalfari nella farsesca tenzone, ovvero i militi del Fatto quotidiano. Un tradimento terrificante, di cui Barbapapà non riesce a farsi una ragione.      Ma andiamo con ordine.  L'argomento del contendere, ovviamente, è di nessun interesse per i comuni cittadini. Tutto ha inizio con un Ingroia galeotto che ausculta le conversazioni del capo dello Stato nel corso delle indagini sulla trattativa Stato-mafia di cui si occupa la Procura di Palermo. Ed ecco che tra i giustizialisti scatta la contesa tra chi sia più antimafioso e più sostenitore delle toghe. Il Fatto raccoglie le firme - oltre 120 mila, più dei suoi acquirenti in edicola - a favore dei giudici palermitani. Se al centro delle investigazioni ci fosse stato Silvio Berlusconi, Repubblica si sarebbe senz'altro  aggregata. Purtroppo, però,  il Cav non c'entra, qui c'è in gioco l'onore di Napolitano. Scalfari insorge, sbandierando la sua antica laurea in giurisprudenza e atteggiandosi ad azzeccagarbugli per sostenere che i magistrati hanno esagerato.       Risultato,  da settimane il mondo progressista è dilaniato da una battaglia a colpi di codici e commi: se questa pagliacciata fosse un'opera, sarebbe la Cavilleria rusticana.  Le argomentazioni dei capoccioni scesi in campo son talmente oscure che neppure loro, in realtà, sanno su che diamine stiano litigando. Sanno solo che litigare bisogna, perché ora più che mai va scelto un fronte: o con Scalfari o con Travaglio. I quali  fanno a gara per vedere chi ce l'ha più lungo: per una pagina che il Fondatore ha vergato domenica,  ieri Marco ne ha sfornate due,  in una prosa scintillante da verbale dei Carabinieri di Sorbara dopo la fiera del  lambrusco.       Fosse una scaramuccia fra testate concorrenti, tutto normale. Il problema è che Eugenio ha portato sconquasso anche all'interno del giornale che fu suo e che ora è di Ezio Mauro. A dargli torto sono alcune delle firme più illustri, che si sono rese colpevoli di intelligenza col nemico, mettendosi a flirtare col commissario Travaglioni. Non a caso ieri il Fatto sciorinava raggiante l'elenco dei transfughi: Barbara Spinelli, Stefano Rodotà, il giurista Franco Cordero, il suddetto Zagrebelsky. Tutti editorialisti di Repubblica:  la rivolta degli schiavettoni.  Ma c'è di peggio. Zagrebelsky è  un insigne rappresentante di Libertà e Giustizia, di cui è promotore Carlo De Benedetti, editore di Repubblica.  A menare le mani a favore delle toghe (e contro Scalfari) ci sono poi  i bellimbusti di MicroMega, Paolo Flores d'Arcais in testa. Peccato che la rivista in questione appartenga al gruppo Espresso. Bel casino. Scegliere il versante per cui propendere, per l'intellettuale progressista, non è mai stato così ostico. Ma pare che la maggioranza dei giustizialisti abbia scelto Travaglio, mollando all'Autogrill nonno Eugenio, sfortunato patriarca osteggiato dai suoi eredi, i Nipotini del Fondatore. Persino Fabio Fazio, che con Repubblica è in simbiosi, ha firmato l'appello del Fatto, spiegando che «quando si tratta di mafia, nessuna zona d'ombra è tollerabile».  Vien da chiedersi che farà  Roberto Saviano, compagno di giochi di Fazio nonché editorialista del quotidiano di Scalfari: tirarsi indietro sulla mafia non può, ma nemmeno gli è concesso ingrossare le file degli avversari.  Ammanetta tu che ti ammanetto io, la disfida dei giustizialisti finirà come prevedibile: entrambi i contendenti si troveranno con le manette al naso. Anche perché la salvifica ambulanza della neuro latita, oppressa da un dubbio: soccorrere prima Scalfari o Travaglio?    

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