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Silvio Berlusconi e la vendetta manettara. Renato Farina: "Se lo difendi o ti calunniano o ti indagano"

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Renato Farina
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Difendere Berlusconi è un reato. Alcuni fatti recenti dimostrano che, pur non essendo ancora entrata nei manuali, questa norma è consolidata nella prassi giuridica e giornalistica, ed è applicata con una naturalezza commovente. Non c'è nel codice penale, anche se è possibile che Alfonso Bonafede la introduca nella sua riforma come prerequisito per entrare nel Csm, ma sarebbe un eccesso di zelo. Che bisogno c'è di fissarla sulla carta, con il rischio che qualche Corte europea dei diritti umani eccepisca? Importante è che funzioni. Eccome se funziona. Se qualche tontolone si affaccia e muove la lingua per tutelare il diritto ad una giustizia giusta persino per Berlusconi, si sente lo scatto della molla da sarcofago egizio, e la spada dell'inquisitore trapassa il fianco dell'ingenuo testimone che credeva di fare il suo dovere. Il tutto nei dovuti modi. Questo è accaduto svariate volte in passato. Riaccade. Per certa parte della magistratura è una di quelle leggi non scritte che si imparano con l'esperienza. È un'appendice ovvia del pregiudizio anti berlusconiano che viene sparso sulle toghe come una polvere invisibile quando ancora bambinette si affacciano nelle associazioni di categoria.

Una legge non scritta - E così da venticinque anni questo mostro giuridico fuggito dall'Urss sbatte le mascelle nei pressi degli sventurati, magari in crisi di coscienza e con uno strano desiderio di onestà. E se qualcuno osa, conoscerà la dentatura del citato alligatore. Si ode un tintinnar di manette per i vivi. Per i morti non c'è nessun ritegno a scorticare la reputazione del cadavere. Di certo, il dogma creduto e praticato, e che andrebbe trascritto nei massimari della Cassazione dovrebbe essere: chi osa testimoniare che il Cavaliere ha subito un torto, ha torto. Punto e a capo. 1. La procura di Napoli, con tempismo magnifico, diremmo provvidenziale, ha aperto un minaccioso fascicolo «per ora senza nomi e senza ipotesi di reato». In quella cartelletta sono finite agli atti, in vista di ulteriori determinazioni dei pm, le dichiarazioni di un paio di camerieri e di un direttore di ristorante. Il Fatto Quotidiano ha fatto sapere che la premessa di questo lavorio della giustizia sta in un comportamento disdicevole dei tre. Gli sventurati hanno raccontato a un legale di Silvio Berlusconi che un cliente abituale dell'hotel di Ischia dove lavorano da anni, era solito fare apprezzamenti a proposito dell'ex premier. Quel gentiluomo, ad esempio, dopo aver saputo che il proprietario dell'albergo di Laccoameno era un esponente di Forza Italia aveva commentato: «Ah, sta con quella chiavica». Fa ridere? In altre occasioni salutava chiedendo se Berlusconi e il titolare dell'hotel fossero già stati arrestati, e poi profetava: «Accadrà presto». Cose così. A ripetizione. Con tutti e tre. Il propalatore di simili delicati pensieri era il presidente della sezione di Cassazione, Antonio Esposito, proprio il giudice che avrebbe poi pronunziato la sentenza a quattro anni di reclusione per frode fiscale nei confronti della sunnominata «chiavica». L'avvocato del Cavaliere aveva raccolto sotto giuramento queste parole come elementi per il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Si chiamano «indagini difensive». Esposito, come suo diritto, nega risolutamente di aver pronunciato quelle frasi, ma fa di più. Vuole che il legale in questione sia punito e lo denuncia all'Ordine degli Avvocati perché ritiene che non essendo in corso un procedimento penale sia illegittima qualsiasi indagine difensiva. Del resto da che può difendersi l'imputato? S.B. è già stato condannato e proprio da lui. Come dire: gli abbiamo già tagliato la testa con tutti i crismi, riattaccargliela è impossibile.

Come difendersi? - Il ragionamento non fa una grinza. Ma è una logica un tantino autoreferenziale, non vi pare? È un modo per bloccare una procedura che metta in dubbio presso un'istanza superiore l'onestà della Cassazione, che è al di sopra di ogni sospetto. Il monito è chiaro. Chi si presenta alla Corte di Strasburgo tramite deposizioni previe, deve attraversare le forche caudine della magistratura italiana. 2. Difendere Berlusconi per i vivi è un reato. Per i morti equivale al disseppellimento del cadavere con esposizione ai corvi che ne beccano gli occhi. L'immagine è orrenda, ma è in rima con il trattamento disgustoso riservato ad Amedeo Franco. Nel 2013 costui lo fece «per sgravarsi la coscienza» e non in un colloquio solitario con Berlusconi, ma davanti a diverse persone, una delle quali ha registrato. Parlò di «plotone di esecuzione». Riferì il pensiero unico del collegio al quale non potè sottrarsi stante un volere altissimo che vegliava su quella sentenza: «Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone!». Il Fatto trascura i contenuti, ritiene che Franco abbia coscientemente tirato una bomba da far esplodere dalla bara, lo accusa nientemeno che di averla fatta franca grazie alla furbizia di darsi morto, perché in vita avrebbe dovuto subire processi per reati gravi come la calunnia ecc. Il problema è: chi lo dice sia calunnia?

«Una scorrettezza» - Non basta. Ilfatto.it tira fuori una vicenda di corruzione fasulla, una fake postuma, ma che pesò su Franco come un'infamia fino alla morte, salvo poi dall'al di là vedersi resa giustizia con il proscioglimento dei presunti complici perché il fatto era inventato. Questi qua mordono il cadavere. Così dice parole sgradevoli e accusatorie contro Franco anche il dottor Ernesto Lupo. Il quale fu primo presidente di Cassazione fino al maggio 2013, poi diventato consigliere del Quirinale. Conferma che Franco «provò a parlarmi della sentenza, ma la camera di consiglio è segreta. Sarebbe stata una scorrettezza grave per lui violare quel segreto e anche per me se lo avessi indotto a farlo. E la mia correttezza è famosa. Per questo cambiavo argomento». Ma come? Franco vuole con ogni evidenza denunciare un reato, esporre una questione di gravità giuridica e politica inaudita, e lui si sbarazza di Franco come di un tipo che annegava e si attaccava ai suoi vestiti immacolati tirandolo sott' acqua. Dice: «La mia correttezza è famosa» per distinguersi da quel collega che lo chiamava per chiedere «la promozione». Per cui rinfaccia al morto di non poterlo contraddire. Invece di dirsi sconvolto dalla rivelazione di un uomo il cui tono è così devastato da non poter che essere sincero, gli spiega che oibò «non è che il giudice parla con l'imputato, sia pure dopo la sentenza, e dice che quella che ha firmato è una schifezza». Insomma. Difendere un condannato di cui si ha la certezza morale fosse innocente non si fa. Se fosse possibile, istituirebbero contro Franco un Tribunale d'Oltretomba, rubando le chiavi a Pietro per chiuderlo a Regina Coeli. 

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