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A Libero il primo lockdown (editoriale) l'abbiamo inventato noi

 La redazione di Libero

I primi vent'anni del quotidiano tra ricordi di isolamento sotto i ponti, successi e tonfi e soddisfazioni da inviato (con molti "vaffa")

Francesco Specchia
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Libero non è un giornale. E’ uno stato mentale, una casa, un porto sicuro nella mia personale geografia dei sentimenti; per me è l’Avana di Hemingway, la Patagonia di Chatwin, la foresta di Sherwood abitata da un’allegra brigata sempre pronta all’assalto alla diligenza. Ma non è sempre stato così.

Quando arrivò la proposta di Vittorio Feltri, il progetto di fondare “un quotidiano corsaro” non mi entusiasmava più di tanto. Per me, freelance dentro, con una vita cadenzata da contratti universitari e collaborazioni pericolanti che mi rendevano un’aria un po’ dandy e un discreto gruzzolo, i giornali erano tutti “corsari”. Venivo dallo scintillante ballo d’una sola estate della Voce di Montanelli; ero passato da giornali satirici come L’Eco della Carogna di Angese e Boxer di Vincino; mi ero fermato a Palermo per la creazione di un foglio sperimentale dove gli articolisti erano i lettori (anticipammo i social network alla fine degli anni anni 90); ero rientrato a L’Arena di Verona il quotidiano della mia città cofondando un bizzarro “Inserto Giovani” (subito abortito); e avevo frequentato la provincia profonda di BresciaOggi dove, come cronista di nera, inciampavo nei tossici alla stazione e nei cadaveri dei turisti tedeschi arrotati dai pirati della strada sulla Gardesana. Lì ci davano due lire, ci inchiodavano al desk -l’orchitico “lavoro di macchina”- per 10 ore di seguito come i “buonavoglia” delle galere romane; e ci concedevano l’ora d’aria giusto per seguire qualche asfittico consiglio comunale. Alla fine, cercavano di convincerci della botta di culo che avevamo avuto nel respirare l’atmosfera del “giornale corsaro”. Ecco. Quando il mio vecchio caporedattore Giancarlo Meloni mi presentò a Feltri, mi avvitò la sua cravatta al collo come una garrota (prima l’avevo indossata solo alla comunione e alla laurea), ed evocò il giornale “corsaro”; bè, la mia idea non era esattamente quella di trovarmi davanti Errol Flynn o il Conte di Ventimiglia con la benda sull’occhio. Eppure, con Feltri davanti, emozione e deferenza presero il sopravvento: le palpitazioni salirono, i pensieri s’annebbiarono e firmai ad occhi chiusi. Firmai senza informarmi sulla paga, e senza leggere. Poteva essere un contratto da garagista, da vigilante notturno, da addetto alla caldaia. Invece ero finito alla Redazione Cultura, incastrato tra la macchinetta che distribuiva terrificanti cibi precotti e a un simpatico collega, storico revisionista, il quale, per rompere il ghiaccio voleva sapere se credessi davvero alla faccenda del nazismo e delle camere a gas. Chiamai mia madre a Verona per sapere se potessi ritornare al mio appartamentino, ma l’aveva già fittato. Però, da quel momento, la redazione – una bolgia di ciellini, leghisti, liberali antichi, comunisti, qualche filonazista- divenne davvero una seconda famiglia. Anzi, la prima famiglia. Perché, per un paio d’anni, data la mostruosa mole di lavoro, ci eravamo confinati in una sorta di pre-lockdown in un equivoco capannone sotto il cavalcavia della ferrovia, in una zona frequentata prevalentemente da extracomunitari e cabarettisti dello Zelig.

Il problema è che il lavoro era soprattutto d’impaginazione e titolazione: nobilissimo e indispensabile per carità, ma mortifero per chi, come me, avesse voluto dedicarsi alla scrittura. Mi salvò la prima edizione del Grande Fratello. Feltri mi mise h24 di picchetto davanti alla tv per resocontare ogni giorno i lettori sugli abitatori della “Casa”; ci feci un libro di discreto successo (il mio coautore Luca D’Alessandro entrò in Parlamento) e mi specializzai nel raccontare il nulla e l’aria fritta. Infatti, oltre che a scrivere di tivù, mi buttai sulla politica. Mi sono sempre piaciuti gli incarichi da responsabile dei vari settori della testata, ma devo dire che la scrittura rimane il faro che inseguiamo nel percorre questo porco mestiere.

In questi vent’anni mi sono democraticamente scazzato con tutti miei direttori, anche perché spesso la linea editoriale del giornale non coincideva con la mia. Eppure, nonostante gli attriti e gli epiteti -il più amabile era “testa di cazzo”, di solito dopo una telefonata inferocita di Forza Italia- ogni direttore, in fondo, mi ha lasciato scrivere le critiche, i reportage, le storie, le inchieste. E devo, a dire il vero, ringraziarli tutti per avermi sopportato e difeso, da Feltri a Senaldi, ma anche Sallusti, Belpietro e Paragone. Ricordo che per un pezzo sull’igienista dentale trasformata in consigliere Regionale Minetti ci piovve di tutto da Palazzo Chigi. Idem, da parte della Lega, per un’inchiesta che dimostrava che Bossi aveva preso i soldi di un’eredità d’una vecchia militante leghista e di come quei soldi fossero spariti. Stessa cosa a causa dei reportage contro la lettiana ministra dello Sport Idem, costretta a dare le dimissioni in una settimana, dato che al sottoscritto, inviato a Ravenna, continuavano ad arrivare documenti che ne attestavano la formidabile tendenza all’elusione fiscale. Idem con patate per l’inchiesta Mps corredata da documenti firmati Mario Draghi allora governatore di Bankitalia che davano il nullaosta alle operazioni che affossarono, di fatto, la banca. Le mazzate arrivavano da ogni parte, in ogni posizione.

Libero mi ha, onestamente, sempre lasciato libero. Anche nei momenti di maggiore difficoltà professionale. Il primo fu quando mi mandarono tra i No Tav in val di Susa. Lì, alla domanda di una placida famigliola di montanari su quale testata rappresentassi, risposi orgogliosamente “Libero!”. E la famigliola fu presa da furia belluina; si arrampicò sull’auto e tentò di ribaltarla con me dentro che cercavo di chiudere i finestrini (la più incazzosa era la nonna). Da allora, in situazioni di alert, bisbiglio sempre di essere del Giorno, bella testata, soprattutto apolitica. Il secondo momento imbarazzante fu quando confezionai un’inchiesta a puntate sulle vere vendite dei giornali italiani pompate dagli editori. Paolo Mieli, l’allora direttore del Corriere, non mi parlò per anni. Il terzo incasinamento avvenne per un ritratto, ricco di dettagli nel bene e nel male, di Vincenzo Novari, allora amministratore delegato di 3 Italia che tolse subito la pubblicità al giornale. E la signora addetta alla pubblicità, oggi deputata, chiese la mia testa all’editore. Solo anni dopo scoprii che Feltri mi difese a spada tratta salvandomi la cotenna (e non me l’ha mai detto, ma di questo gli sono ancor più grato). Per il resto, tra decine di querele -quasi tutte vinte-, le situazioni di grande difficoltà come la morte di un editore o la cassa integrazione; e i momenti di trionfo di vendita e di notorietà, be’, ho vissuto Libero come un’iniziazione, un rito di passaggio all’età adulta, un luogo degli affetti dove vivere la maturità. Chiedo scusa se ho parlato di me per dichiarare il mio viscerale amore per questa testata

Buon compleanno, caro giornale mio…

 

 (6800 battute)

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