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La Convezione di Faro che spinge l'Italia a censurare la propria arte

Statue coperte ai Musei Capitolini per non urtare la sensibilità iraniana

Francesco Specchia
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Chiamatela violazione identitaria, mortificazione dell’arte, resa culturale alle falangi armate del politicamente corretto.

È una strana forma di harakiri, quella che ha spinto a firmare (come ha fatto il Parlamento con 237 voti giallorossi favorevoli) la “Convenzione di Faro”. Ossia un documento che fa sì che il patrimonio artistico, reso giuridicamente universale, non offenda altri popoli e culture. Un meccanismo che, nella sua interpretazione estensiva della norma agli articoli 4 e 7, consentirebbe di arrivare a censurare la nostra stessa arte qualora un qualsiasi passante – musulmano, buddhista, induista che sia – se ne sentisse intimamente offeso. Siamo, come scrive Francesco Storace sul Tempo, al reato di «offesa monumentalistica»

Si parla di «limitazioni all’esercizio del patrimonio culturale necessarie per il rispetto del diritto altrui» nel tentativo di «promuovere la diversità culturale»: un ossimoro che conta illustri precedenti. Addirittura, ogni elemento del nostro patrimonio potrà/dovrà passare da un’accurata mediazione con una controparte straniera che possieda parametri e sensibilià culturali completamente diversi dai nostri. Naturalmente, i parlamentari di Fratelli d’Italia che hanno sollevato il caso, ci si sono buttati a pesce. E hanno invocato i cupi rigurgiti di epoche oscurantiste. Ricordano di come, nel tripudio del Giudizio universale, Michelangelo fu violato da quaranta mutande censorie imposte ai nudi della Cappella Sistina. O quando, tanto per stare nel contemporaneo, nel 2016, il governo Renzi, allora sì in orbace culturale, si pregiò di ricoprire le pubenda della Venere Esquilina e interi gruppi marmorei, per non urtare la sensibilità religiosa del presidente iraniano Rohani in visita ai Musei Capitolini. Allora, almeno, c’erano le recrudescenze del senso di colpa cattolico dei Papi mecenati. E c’era pure la necessità, per Renzi, d’intessere con l’Iran rapporti commerciali privilegiati; sicché il culo scoperto di una statua equestre o un tumido seno di ninfa sarebbe costato, magari, qualche barile di petrolio e punto di export in meno. Ma in questo caso, Pd e 5 Stelle hanno ben poche giustificazioni. Il fatto che, approvando il trattato suddetto, abbiano mosso sé stessi verso un temibile, perpetuo meccanismo “di monitoraggio” dell’opera d’arte; be’, questo, appare come un esprit masochistico, un qualcosa di palesemente innaturale. Vittorio Sgarbi, che molto s’ è preso a cuore la faccenda, evoca la fatwa islamica allo scrittore Salman Rushdie, l’applicazione di un principio liberticida che è «una perversione rispetto al carattere univesrale del patrimonio artistico». E non ha torto. Ora, il ministro del MiBact Dario Franceschini, padrino dell’operazione, è senz’ altro in buona fede. Franceschini crede fermamente nel «riconoscimento reciproco delle eredità culturali dei popoli» e nell’intima bontà dell’uomo, come Anna Frank. Eppure dovrebbe servire da monito la vicenda che, proprio in tempi come questi, negli Stati Uniti si sradicano le statue di Cristoforo Colombo e di qualsiasi statista, patriota o intellettuale oggi ritenuto politicamente scorretto. La censura è sempre in agguato e s’ insinua nello sguardo spesso socchiuso del legislatore. Mettere spontaneamente il velo all’arte, significa colpire con la mazza delle convenzioni la nostra più alta libertà d’espressione…

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