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Ilva e Riva, Filippo Facci contro la magistratura: "Come uccidere senza un perché un grande gruppo e una famiglia"

Filippo Facci
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La storia dell'Ilva: non è chiaro neppure che storia dovremmo raccontare, visto che le storie sono tante e incrociate tra loro, tutte importanti, tutte catastrofiche, tutte rimosse, tutte incredibili. Una è la storia di Emilio Riva, morto nel 2014 nella maniera più infame, dopo esser stato considerato - e tutt' ora lo è - il pioniere della siderurgia italiana del dopoguerra assieme al fratello Adriano, creatori di soluzioni innovative nella produzione dell'acciaio, tra gli industriali europei più lungimiranti degli ultimi 50 anni, capace di crescere in Italia e all'estero al punto da diventare, il loro, il secondo gruppo siderurgico europeo e il quinto mondiale: 30 mila dipendenti e 10 miliardi di euro di fatturato.

Una persona di cui però si sentiva parlare poco: zero mondanità, sempre in fabbrica, zero rapporti con la Borsa e relativi salotti, uno che continuava a definirsi «imprenditore industriale» anziché «capitalista». Poi di colpo è diventato un mostro. Nel luglio del 2012 l'hanno arrestato (ai domiciliari a Malnate, Varese) e gli hanno sequestrato l'azienda. Nelle carte dei giudici si apprendeva di «logica del profitto spregiudicatamente e cinicamente seguita» (come se parlassero di una società filantropica e non dell'acciaieria più grande d'Europa, parte integrante del sistema produttivo italiano) con il gip a distribuire certificati di morte e, indirettamente, patenti di assassino. Numeri precisi nel regno dell'approssimazione statistica: «174 morti» per cancro e malattie cardiovascolari, coi Verdi (che esistevano ancora) a enumerare «due o tre persone al mese morte di inquinamento», per un totale di «386 decessi negli ultimi 13 anni». Questo in un Italia dove c'erano vari ministeri, il Noe, la polizia ambientale, le unità sanitarie locali coi loro ispettori, la politica e gli enti locali, gli imprenditori e i sindacati, persino i giornalisti: ma nessuno, per anni, si era mai accorto di violazioni delle «più elementari regole di sicurezza».

 Un'intera filiera democratica e istituzionale, ergo, non aveva funzionato: ad aver funzionato, combinazione, era stato solo l'ufficio del gip Patrizia Todisco, a cui bastò un tratto di penna per mandare a casa 15mila persone, questo sullo sfondo di una perizia (una) che in 800 pagine parlava di latte materno inquinato, bambini con tumori, e livelli di diossina tra i più alti del mondo. Persino Legambiente, nemica giurata dell'Ilva, nel famigerato 2012 aveva scritto nel suo rapporto che, su 55 capoluoghi di provincia presi in esame, Taranto figurava al 46 posto nella classifica dell'inquinamento da polveri sottili: erano messe peggio Torino, Milano, Verona, Alessandria, Monza e altre quaranta città. Ma il mostro ormai era il mostro. Nella prefazione di un libro per bambini si raccontava che a Taranto, per colpa dell'Ilva, «il cielo era sempre scuro e la gente si ammalava», ma poi arrivava un dio che tuonava: «Col mio soffio spegnerò le ciminiere, porterò via i fumi e manderò a casa gli uomini d'acciaio!». Anche il giornalismo di quei giorni andrebbe ristudiato, da tanto schifo che fece. Un esempio per tutti: la trasmissione PiazzaPulita (La7) che con giorni di anticipo organizzò un corteo-manifestazione (con tanto di manifestini col marchio di PiazzaPulita) e lo fece coincidere con la diretta finale: in pratica crearono la realtà che poi rappresentarono, spacciandola per quotidiana normalità. Un canaio. Una rivolta. Intanto il mostro, Emilio Riva, finiva ricoverato nel centro cardiologico Monzino di Milano (due volte) e quando scaddero i termini di custodia cautelare, dopo un anno, non cambiò quasi niente: gli imposero l'obbligo di dimora. E, anche senza tirare in ballo la caduta delle difese immunitarie che sopravviene quando il dolore diventa troppo pesante, Emilio Riva cominciò a morire. Con l'inizio dell'inchiesta cominciò anche il tumore osseo che lo consumò. Avrebbe voluto riportare in un libro la sua verità, e fece contattare dalla moglie il collega Stefano Lorenzetto, che aveva già conosciuto. Ma, senza la liberatoria del magistrato, giornalista e indagato sarebbero potuti incorrere nell'ipotesi di tentata evasione. Gli avvocati temevano che Riva poi potesse finire a San Vittore (a 87 anni) e si lasciò perdere. Fu un peccato, aveva già trovato l'editore. Invece trovò la morte, il 30 aprile 2014, nello stesso periodo in cui altri storici industriali come Luigi Lucchini e Steno Marcegaglia avevano salutato.

 

 

Da quel luglio 2012, per i primi sette anni successivi, nel fumo delle ciminiere finirono anche 23 miliardi di euro di Pil, l'1,35 per cento della ricchezza nazionale; ma, sommando le perdite indotte da parte del nord industriale (quello fatto di meccanica e componentistica) il Pil bruciato saliva a 7,3 miliardi. Taranto, ex capitale industriale del Sud con livelli di reddito e di benessere paragonabili al Nord - grazie all'Ilva, non certo alle cozze - tornò a meridionalizzarsi. Ma il vuoto produttivo, come visto, andò a trasmettersi su tutto il resto dell'economia nazionale: Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria e Lombardia. Anche la metà del tessuto produttivo tarantino era associato all'Ilva: 600 aziende. Tra il 2013 e il 2018 l'Ilva perse tra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi della ricchezza nazionale. Nel 2019 le cose peggiorarono perché la promessa acquirente, l'indiana Arcelor Mittal, mantenne a 5,1 milioni di tonnellate la produzione di acciaio anziché i 6 milioni promessi. Solo nel 2019 furono bruciati 3,62 miliardi (i dati sono di Svimez per Il Sole 24 Ore) e nel complesso la crisi dell'Ilva ha fatto calare l'export delle imprese di 10,4 miliardi di euro, e i consumi delle famiglie di 3,5 miliardi. Intanto nel nostro mercato s' infilavano Cina e Corea con un prodotto di qualità inferiore. E tutto accelerava, precipitava. A inizio novembre l'immunità penale introdotta dal governo Renzi nel 2015 ha fatto archiviare alcune inchieste per foramenti di diossina, di black carbon e per i lavori di ampliamento della discarica interna. Poi, il 10 dicembre, nell'ex Ilva è tornato ufficialmente lo Stato: ArcelorMittal e Invitalia hanno firmato un accordo che consente alla prima di entrare al 50 per cento (poi salirà al 60) e di programmare investimenti ambientali e industriali che comprendono la «decarbonizzazione» dello stabilimento.

Alla fine del processo, Invitalia di Domenico Arcuri resterà azionista di maggioranza con il 60 per cento del capitale. E' tornato l'acciaio di Stato, ma ridimensionato come lo è l'intero Paese. Lo stesso 10 dicembre, la Corte d'appello di Milano ha confermato l'assoluzione per Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia proprietaria prima che fosse espropriata: una verità ristabilita solo grazie a una scelta processuale diversa da quella rinunciataria del fratello Nicola e dello zio Adriano (intanto morto) che avevano preferito patteggiare, ossia accettare la tesi accusatoria. La legge del 2015 (governo Renzi) che garantiva un'immunità penale per i commissari Ilva e gli acquirenti della fabbrica (ArcelorMittal) intanto è stata completamente riscritta e rafforzata, imponendo la revoca di tutti i sequestri penali e l'assenza di misure restrittive nei procedimenti in cui i soci indiani e lo Stato dovessero incappare; il motore produttivo dello stabilimento era sottoposto a sequestro ancora dal luglio 2012. In sintesi: hanno mostrificato i Riva, li hanno espropriati di una delle più importanti acciaierie del mondo, hanno impoverito il Paese, poi l'hanno nazionalizzata in società con degli indiani e infine si sono dati tutti un'immunità penale. I Riva, intanto, sono stati assolti alle calende greche o sono morti nell'ignominia.

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