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Coronavirus, il governo Conte ha usato la pandemia per la via italiana al socialismo

Iuri Maria Prado
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Se il cosiddetto modello italiano è stato imposto con tanta noncuranza dai governanti, e se la maggioranza dei governati vi si è uniformata senza troppo patimento, è perché esso risponde a uno schema di giustizia sociale abbastanza accreditato: e cioè all'idea che alla fine dei conti le cose vanno meglio se siamo tutti più poveri e tutti meno liberi. Le scempiaggini del presidente del Consiglio che ci spiega quanto saremo migliori alla fine delle privazioni, col potere di governo scambiato per il pulpito da cui professare quell'apostolato da sociologo delle serali; l'opinionista democratico che canta la bellezza della sottomissione all'ultimo dpcm che finalmente ci implica in noi stessi e ci fa capire quali sono le cose meritevoli della vita; la retorica intorno al tempo libero finalmente disponibile per riscoprire la ricetta delle polpette della nonna, così sincere e genuine contro i precotti della pausa pranzo che alimentano gli sfruttati dalla crudele logica del profitto; insomma tutto il circolo del luogo comune miserabilista e depressivo che ha scritto la biografia nazionale degli ultimi mesi non raccontava l'Italia come essa temeva di essere, ma come essa aveva ambizione di diventare. Appunto, tutta più povera e tutta meno libera.

 

 

La spontanea e pressoché unanime subordinazione degli italiani alle folli, illiberali, persino illegali misure di restrizione adottate in omaggio a presunte esigenze di salute pubblica, solo apparentemente dimostrava il fiduciario senso civico reclamato dalla propaganda governativa e semmai denunciava la disponibilità diffusa ad accucciarsi confortevolmente in quel paradiso senza più spazio per il criterio individuale, senza più margini di responsabilità privata, senza più occasioni di scelta autonoma. Certamente tutto questo non allietava tutti e altrettanto certamente alcuni o anche parecchi soffrivano per quelle limitazioni anziché compiacersene, ma la piega psicologica preponderante era quella: una buona volta tutti uguali, tutti rinchiusi, tutti inermi davanti al potere pubblico che ti ordina la vita, che "consente" questo e "non permette" quest' altro, che ti ristora nel disagio e appunto ti spiega come trovare nutrimento spirituale nella peregrinazione dal tinello al divano.

 

 

L'economia da Covid, in questo quadro, non è più nemmeno una parentesi emergenziale ma la realizzazione di un principio: un modello, appunto, coi soldi europei richiamati non a uscirne ma a perpetuarlo. L'epidemia, quasi un guaio se finisce piuttosto che se continua, è stato il veicolo pretestuoso per rendere esplicita l'istanza antica della soluzione antiliberale, e per riaffermarla nell'inevitabilità delle patrimoniali e dei divieti di licenziamento posti a remunerare l'abolizione della povertà: la roba buona per cui - non a caso - si segnala il Paese più declinante dell'Occidente. Il Covid, la via italiana al socialismo. 

 

 

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