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Il coronavirus non finirà mai? Le varianti potrebbero condannarci al vaccino ogni 12 mesi

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Alessandro Gonzato
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Dal «dovremo abituarci a convivere col virus», raccomandazione divenuta banalità nell'ultimo anno di talk show, al «dovremo vaccinarci ogni anno contro il virus», novità di giornata. Il vaccino anti Covid-19, ha dichiarato Alex Gorsky, amministratore delegato di Johnson&Johnson - azienda che è in attesa di poter inviare le prime forniture - andrà probabilmente ripetuto «una volta all'anno per molti anni». «Purtroppo», ha detto in un'intervista alla CNBC, «più il virus si diffonde e più muta, e ogni volta che muta, la variante può rispondere in modo diverso non solo ai farmaci ma anche al vaccino. Ci vaccineremo contro questo virus proprio come facciamo con l'antinfluenzale».

 

 

Abbiamo chiesto un parere al professor Francesco Le Foche, immunologo, responsabile del Day Hospital di Immunoinfettivologia del Policlinico Umberto I di Roma: «Io ci andrei cauto, è solo un'ipotesi. Bisogna verificare qual è la copertura effettiva degli anticorpi neutralizzanti prodotti dalla vaccinazione, che sono diversi da quelli dell'immunità naturale. Il vaccino anti-Covid», spiega Le Foche, «ne induce la produzione solo contro la proteina Spike. È passato troppo poco tempo dall'inizio della vaccinazione per potersi sbilanciare. È come dire che chi ha già contratto il virus non lo può più riprendere: lo scopriremo tra qualche mese».

AUTORIZZAZIONI
Il siero J&J non è ancora stato approvato, la multinazionale ha già chiesto l'autorizzazione d'urgenza alla Food and Drug Administration americana ed entro marzo, se l'iter verrà rispettato, farà altrettanto con l'Ema. L'accordo con l'Ue prevede la fornitura di 200 milioni di fiale più un'opzione per altre 200. L'Italia, stando al contratto, ne riceverà 27 milioni. Astrazeneca invece entro fine marzo ci invierà meno della metà delle dosi pattuite col commissario Domenico Arcuri: 3,4 milioni anziché 8. Sono arrivate le prime 249 mila ma la somministrazione è ancora ferma. Ieri l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha informato che «il richiamo dovrebbe essere effettuato idealmente nel corso della 12 esima settimana (da 78 a 84 giorni) e comunque a una distanza di almeno 10 settimane (63 giorni) dalla prima». L'indicazione è contenuta in una circolare del ministero della Salute. Secondo l'Aifa «i dati attualmente disponibili indicano che già 4 settimane dopo la prima dose si raggiunge un livello di protezione efficace», e però se per concludere la profilassi serviranno quasi 3 mesi la già pachidermica macchina vaccinale di Arcuri rischia di inchiodarsi, a maggior ragione perché l'Aifa ha chiarito che per questo vaccino le dosi non sono intercambiabili: chi ha ricevuto la prima di Astrazeneca dovrà attendere la seconda senza possibilità di ricorrere ad altri sieri.

 

 

QUARANTENA
Intanto in Italia si è scatenato un altro dibattito: il ministero della Salute ha comunicato alle Regioni che anche le persone vaccinate devono sottoporsi alla quarantena in caso di contatto con soggetti positivi. La linea prudenziale ha subito diviso gli esperti. Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, non è d'accordo: «Se fosse così tutti i sanitari dovrebbero vivere in quarantena, perché siamo sempre a contatto con persone positive. Chi ha avuto un contatto ravvicinato e senza mascherina con un positivo più che fare la quarantena dovrebbe essere controllato con un tampone». Di parere opposto Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università degli Studi di Milano: «È necessario proseguire con tutte le precauzioni, quarantena compresa, perché non siamo certi della sterilizzazione del soggetto vaccinato». Il professor Le Foche sta nel mezzo: «Ok all'isolamento, ma solo in caso di contatto ravvicinato». Nel frattempo le Regioni hanno chiesto al ministro della Salute Roberto Speranza un tavolo tecnico «per sgomberare il campo dalle incertezze che stanno ostacolando la campagna vaccinale».

 

 

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