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Quirinale, perché il presidenzialismo è ormai un obbligo: Italia, un caso in Occidente

Sergio Mattarella  

Francesco Carella
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Non vi è Paese occidentale in cui si discuta, come in Italia, da così tanti anni circa la necessità di cambiamenti istituzionali. Dalla nascita della Repubblica in avanti il tema non è mai scomparso dal dibattito pubblico. Il che lascia presupporre che nel nostro sistema politico vi siano dei vizi di origine ai quali non è ancora stata data una risposta risolutiva. Ora che il problema della forma di governo ritorna in primo piano con la proposta di Fratelli d'Italia di lanciare una petizione per l'elezione diretta del presidente della Repubblica, vale la pena di ripercorrere le ragioni storiche per le quali nel nostro Paese accanto a governi deboli vi sia sempre stata la demonizzazione di un possibile rapporto diretto fra elettori e capo dello Stato. L'architettura istituzionale che viene privilegiata dai Costituenti non poteva non essere condizionata dal clima politico maturato a ridosso della fine del Secondo conflitto mondiale. Fu chiaro fin da subito che l'orientamento delle potenze vincitrici tendeva ad escludere che in Italia si potessero costituire "comandi forti" nel timore che andassero in replica esperienze simili a quelle del Ventennio. 

 

Argomento che incontrò il favore della maggioranza dei partiti, i quali in tal modo «sottoscrissero una reciproca polizza di assicurazione per far sì che in nessun caso la vittoria di una parte avrebbe portato all'annientamento politico dell'altra». Purtroppo, i protagonisti dell'Assemblea Costituente non diedero il giusto peso a ciò che era accaduto in Europa fra le due Guerre mondiali, là dove furono proprio i governi democratici deboli a rappresentare la causa principale dell'affermazione del totalitarismo. In ragione di ciò, la figura del capo dello Stato non poteva che essere definita seguendo un'ambiguità formale che autorizzerà uno sviluppo dualistico della Presidenza intesa sia come garanzia dell'unità nazionale che quale motore di indirizzo politico. A seconda delle contingenze storiche abbiamo assistito al prevalere dell'una o dell'altra interpretazione. 

 

In tal senso, basti solo ricordare quel che avvenne alla fine degli anni '50 allorquando si crearono le condizioni per il passaggio dal centrismo al centro-sinistra. Il Presidente Giovanni Gronchi era convinto che ci fossero i presupposti costituzionali, per potere esercitare un ruolo da protagonista in quella fase politica e si mosse di conseguenza. Mala forzatura compiuta nel 1960 con la formazione del governo Tambroni (che ottiene la maggioranza grazie ai voti del Msi) provocò una reazione tale nel Paese da indurre il Quirinale, di lì in poi, a ridimensionare l'intervento politico. Le inadeguatezze istituzionali, però, rimasero inalterate. Infatti, la crisi di sistema dei primi anni '90 rilancia di nuovo la figura del capo dello Stato quale attore politico di primo piano. Nascono, in tal modo, i "governi del Presidente". Le ragioni storiche che sostennero la scelta di dare alla Repubblica una forma di governo con scarsi poteri sono venute meno da molto tempo. È giunto il momento che la classe politica rinunci a quella che è stata chiamata "polizza assicurativa", per dare al Paese quelle riforme costituzionali senza le quali non potrà mai esserci un efficace funzionamento del nostro sistema democratico.

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