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Calenda, l'autogol del pallone sgonfiato del Parioli: l'affondo di Senaldi

Pietro Senaldi
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In attesa di fare il pieno di voti, Carlo Calenda ha fatto il pieno di insulti sui suoi social. Non c'è da stupirsi. È due anni che gira le televisioni a parlare male del Pd e di M5S, a sostenere che ha lasciato i dem perché si erano accordati con i grillini e a giurare che si sarebbe presentato da solo alle elezioni. Non gli interessavano le poltrone, tantomeno i seggi parlamentari, spiegava. Il suo avrebbe dovuto essere un investimento sul futuro: si sarebbe candidato nel collegio uninominale di Roma 1, l'avrebbe vinto e con una dozzina di prodi pescati dalla sorte qua e là dal proporzionale avrebbe insinuato alla Camera e in Senato un drappello di competenti destinati a sbancare al prossimo giro. Dentro il grande raccordo anulare, se raccontavi questa storia, ti sghignazzavano in faccia oppure ti guardavano tra il perplesso e l'esterrefatto, manco fossi appena sbarcato da Marte. E certo, a Roma, dove ha iniziato a fare guai che ancora era in calzoni corti, il Carletto lo conoscono bene, e l'avevano pesato: il leader di Azione è tante fregnacce e poca ciccia, proprio all'opposto di come appare. Nel resto d'Italia però, dove di lui sapevano poco, in tanti ci avevano creduto: ecco qualcosa di nuovo, un figlio del sistema di potere che osa sfidarlo per il bene di noi contribuenti periferici. Si erano mobilitati in tanti, gratis, a selezionargli una classe dirigente adeguata sul territorio, impegnandosi e mettendoci la faccia. Ora queste nuove leve, valide e speranzose, devono lasciare il posto a Gelmini e mestieranti vari, dismessi dai loro partiti e che hanno ritrovato nell'ombelico di Carlo il centro del loro futuro politico. C'è perfino chi aveva visto in lui una sorta di nuovo Berlusconi.

 

 

 

PIFFERAIO MAGICO

Illusi. Si sapeva che Calenda sarebbe comunque finito per essere il pifferaio magico della sinistra, portando a Letta il consenso di tutti gli sventati moderati delusi che lo avrebbero votato. Il fatto che il leader di Azione abbia scelto di accordarsi con il Pd prima delle urne, e non dopo, è la prima cosa onesta e trasparente compiuta da quando ha deciso di candidarsi. Almeno le cose sono chiare da subito. Alla fine il Carlo ha dato prova di essere uomo di panza ma non di sostanza. Quando non c'era nulla da perdere ha fatto la voce grossa, sputato sentenze e indicato la linea. Non appena si è entrati in campagna elettorale ai pericoli della navigazione solitaria lo statista pariolino ha preferito un rientro in rada. E chi se ne importa se la sola risposta fattuale che uno si può dare se si chiede perché Calenda sia uscito dai dem per poi rientrarvi senza aver fatto neppure un giro alle urne è per garantirsi posti sicuri e contributi elettorali, quasi Azione fosse una startup parlamentare e non una forza politica fondata su principi e una visione di Paese. Il pallone sgonfiato aveva di fronte a sé una scelta chiara: presentarsi da solo avrebbe significato guadagnare circa tre punti in più di quelli che otterrà ora, arruolatosi nel campo sconnesso di Letta, ma, a causa dei meccanismi perversi della nostra legge elettorale, gli avrebbe consentito di mettere insieme meno seggi di quanti non ne avrà da alleato del Pd. Calenda doveva decidere se avere più stellette, ossia consensi, o truppe, ovverosia parlamentari. Con le prime si brilla in tv ma si pesa poco in aula e si conta ancora meno come leader, visto che un politico è misurato dai colleghi in base ai seggi e alle prebende che può garantire.

 

 

CALCOLI POLITICI

Benché sia un ritorno a casa, quella del figliol prodigo Carlo non è stata una decisione di cuore, tantomeno di pelle, visto che finire nella schede elettorale nella stessa casella di Fratoianni, Di Maio e Speranza è auspicabile che gli abbian almeno fatto venire l'orticaria. Si è trattato di un calcolo politico nel quale il leader di Azione ha dimostrato un'abilità di trattativa da mercante levantino, poiché ha sottratto al Pd il 30% dei seggi disponibili nella coalizione. Questo significa che il partito di Calenda avanzerà come un panzer sulle macerie dell'alleato dem e che Letta dovrà passare le prossime settimane a decidere quali fedelissimi della sua armata dovrà sacrificare per liberare posti alla truppa di profughi che ormai è diventata Azione. Ma l'accordo tra Carlo ed Enrico non delude solo i soldati del secondo. Anche quelli del primo non si aspettavano di finire arrosto come salamelle al festival dell'Unità. I discepoli di Calenda sognavano di essere il perno del grande centro, alleati con Italia Viva ma guardando i renziani dall'alto. Ora, grazie alla leggiadra piroetta del Carletto nazionale, il centro non esiste più e il terzo Polo rischia di diventare l'alleanza rossa tra i grillini di Conte e la sinistra in fuga dal campo perché schifata dall'arrivo di Azione. Con il gustoso particolare che, in questo caso, il terzo incomodo nella sfida elettorale non sottrarrebbe voti al centrodestra ma alla sinistra dei maestrini rossi, così bravi da spacciare il programma di governo di Draghi come il proprio, anziché cercare di elaborarne uno. Con il particolare che Draghi non aveva alcun programma, solo un'agenda di cose da fare per conto terzi. 

 

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