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La fine di Hitler nel bunker e i misteri sulla morte del Duce

In “Finimondo” il racconto degli ultimi giorni del Fuhrer dalle nozze con Eva Braun al colpo di pistola. E i sospetti su Mussolini “venduto” dai tedeschi ai partigiani
di Bruno Vespa venerdì 31 ottobre 2025

6' di lettura

La sera del 29 aprile Hitler entrò nella sala conferenze: ad attenderlo c'erano Eva, Bormann e Goebbels, Magda, Gerda Christian, Constanze Manziarly, i generali Wilhelm Burgdorf e Hans Krebs, e Artur Axmann, il capo della Gioventù hitleriana, che aveva raggiunto il bunker. Come ufficiale di stato civile era presente Walter Wagner, arrivato lì dopo varie peripezie. Eva indossava un vestito lungo in taffettà nero, dalla gonna molto abbondante e con il collo alto, uno degli abiti preferiti di Hitler. Portava un braccialetto d'oro con tormaline, un orologio con brillanti, un ciondolo di topazi e una spilla appuntata tra i capelli. Hitler indossava l'uniforme. Gli anelli nuziali, che provenivano con ogni probabilità dall'oro della Gestapo, erano larghi. (Il giorno dopo Eva spedì il suo all'amica Herta.) Il cerimoniere disse: «Chiedo a Lei, Mein Führer, Adolf Hitler: acconsente a prendere Fräulein Eva Braun come sua sposa? ... E adesso chiedo a Lei, Fräulein Eva Braun...».

Eva firmò prima con il cognome da ragazza, poi corresse: «Eva Hitler». (Sottolinea Fest: «Nella sua qualità di Führer – Hitler lo aveva più volte affermato – egli non poteva essere sposato, dal momento che l'aura mitologica da lui attribuita al concetto non tollerava tratti umani».) Poi Hitler rimase chiuso nel suo studio fino alle 4 del mattino con la segretaria per completare il testamento e firmarlo. Eva, nel frattempo, chiese che venissero serviti dolci e champagne, e fece musica con l'unico disco rimasto.

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Quando tornò da loro, il Führer si mise a discutere ininterrottamente di politica con Bormann e Goebbels. Il 30 aprile tutti si svegliarono tardi. Il bunker viveva l'amara quotidianità, compreso il pranzo del Führer (che mangiò con le segretarie e la cuoca), ma la tensione era al culmine. Non fidandosi più di nessuno, per sperimentare l'efficacia del veleno Hitler lo fece ingerire alla sua amatissima cagna, Blondi. Effetto immediato. Dopodiché ordinò che fossero messi a disposizione delle SS del suo corpo di guardia 200 litri di benzina.

Tra le 15 e le 16, mentre due sergenti sovietici issavano la bandiera rossa sulla cupola del vicino Reichstag, il Führer uscì dalla sua stanza e volle stringere la mano a tutti. Traudl Junge ricorda di lui la mano calda e, di Eva, il sorriso e l'abbraccio, oltre all'invito ad andarsene ea salutarle la Baviera. Eva, diventata finalmente Frau Hitler, indossava un abito nero con delle rose sulla scollatura: era pettinata e ordinata proprio come lo era stata in tutti i giorni della sua vita, compresi quelli trascorsi nel bunker. Marito e moglie si ritirarono nella loro stanza, chiudendosi alle spalle la pesante porta di ferro. Il silenzio spettrale fu rotto per un attimo da Magda Goebbels che, giunta di corsa alla porta, tentò un'ultima, disperata incursione, ma venne bruscamente respinta da Hitler. Sul letto, i due coniugi erano seduti l'uno accanto all'altra, lei alla destra di lui, con le gambe raccolte sotto il corpo, come usava accomodarsi al Berghof nell'ampia poltrona, con i suoi cani ai piedi a farle da guardia.

Eva estrasse la sottile fiala di vetro con il cianuro dalla capsula di ottone, la premette tra i denti, e in meno di un minuto il respiro scivolò da affannato a flebile a nulla. (Scrive la Lambert: «Il tubicino di ottone che aveva contenuto il suo veleno le era caduto dal grembo ed era rotolato sul pavimento. Sembrò a tutti un rossetto scartato».) Il suo capo fu trovato chino sul corpo di Hitler, che si era suicidato con un colpo di pistola, pur avendo anch'egli a disposizione una fiala di veleno. Il generale Johann Rattenhuber, capo del corpo di SS addetto alla sicurezza personale del Führer, fece trasportare i loro corpi nel cortile: cosparsi di benzina, bruciarono sotto un bombardamento. Più tardi, «quando già le sparse ceneri volavano al vento», fu improvvisata una velocissima cerimonia simbolica di sepoltura nel cratere di una bomba. Le ceneri furono coperte di terriccio, poi pressato, mentre un ristretto corpo di guardia salutava con il braccio teso. Pochi giorni prima Hitler aveva detto: «Meglio un Achille morto che un cane vivo».

***** Mussolini fu «venduto» dai tedeschi? Alle 7.30 del 27 aprile il convoglio fu bloccato da alcuni tronchi d'albero che ostruivano la strada. I partigiani erano guidati dal conte Pier Luigi Bellini delle Stelle (nome di battaglia «Pedro»), comandante dell'unica brigata Garibaldi presente nella zona, il quale avrebbe dichiarato che erano in 25. In ogni caso, per numero e armamento, i tedeschi avrebbero potuto liquidarli con estrema facilità, se avrebbero voluto. Il problema è che non vollero, interessati com'erano a raggiungere al più presto la Germania, anche sacrificando l'illustre ospite. Il capitano Hans Fallmeyer, comandante della colonna tedesca, andò parlamentare a lungo con Bellini. Nel frattempo, dei gerarchi ei loro famigliari scesero dalle auto e si misero a discutere con contadini della zona, promettendo e consegnando valori che non avrebbero più rivisto.

Al ritorno dalla trattativa, Fallmeyer riferì che la colonna tedesca era autorizzata a passare, mentre gli italiani avrebbero dovuto fermarsi ed essere identificati. Friedrich Birzer, il capo della scorta di SS incaricata di proteggere Mussolini, disse al Duce che avrebbe dovuto indossare una divisa tedesca e camuffarsi tra gli altri militari in ritirata. Claretta Petacci, che nel frattempo si era avvicinata al camion su cui viaggiava il Duce, lo incoraggiò al travestimento, a differenza di Pavolini, che, invece, lo invitò a rimanere insieme agli altri camerati. A Dongo avventne il rapido controllo dei camion della colonna tedesca. Secondo la versione ufficiale dei partigiani Mussolini e Hitler verso la tragedia finale 267 sarebbe stato Giuseppe Negri, il vicecomandante di Bellini, a identifica Mussolini, accucciato nel cassone del camion e con addosso una divisa da caporale tedesco di qualche taglia in più e un elmetto.

«Gh'è chi el “Crapùn”» disse, arrestandolo. Ora, è assai strano che Negri sia andato dritto al terzo camion della colonna: c'è dunque il fondatore sospetto che i tedeschi abbiano «venduto» Mussolini per poter proseguire tranquillamente. Il Duce fu quindi condotto nel municipio di Dongo, dove Bellini fece l'inventario del contenuto della borsa che il prigioniero aveva con sé. Mussolini chiese di fare attenzione, perché dentro c'erano «documenti segreti che hanno un'importanza storica grandissima». Si trattava di quattro dossier con le seguenti intestazioni: «Processo di Verona», «Corrispondenza Hitler-Mussolini», «Umberto di Savoia» (pare che quest'ultimo fascicolo sia immediatamente scomparso e si è detto che contenesse allusioni alla presunta omosessualità del futuro re d'Italia) e un quarto contenente soltanto ritagli di giornali sull'ipotesi di un passaggio del Duce in Svizzera.

C'erano poi alcune sterline d'oro e assegni cicolari per 1 milione 575.000 lire. Bellini non ha mai fatto cenno alla corrispondenza di Mussolini con Churchill, che invece, secondo Peter Tompkins – giornalista americano diventato poi agente dei servizi segreti britannici –, era costituita da 62 lettere, successivamente vendute dal partigiano comunista Dante Gorreri al capitano dei servizi britannici Malcolm Smith per 2,5 milioni di lire in contanti. Nell'immediato dopoguerra, Smith consegnò le lettere a Churchill, che soggiornò sul lago di Como fingendosi in vacanza, con il nome di «colonnello Waltham».

C'è poi la storia del cosiddetto «oro di Dongo», la cassaforte della Repubblica di Salò, di cui si è favoleggiato a lungo nel dopoguerra. Nel suo libro La pista inglese, Luciano Garibaldi riporta la testimonianza di Massimo Caprara, segretario di Togliatti, secondo cui la parte del «tesoro» nelle mani di Gorreri fu ceduta all'amministratore del Pci Renato Cigarini. Valutata 189 miliardi di lire del 1949 (circa 3,5 miliardi di euro di oggi), fu depositata su conti svizzeri del Partito comunista e in seguito parzialmente utilizzata dall'imprenditore comunista romano Alvaro Marchini per costruire nella capitale il palazzo di via delle Botteghe Oscure, sede storica del partito, e la tipografia milanese dell'«Unità».

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