Quando il 10 dicembre 1937 tiene la lezione inaugurale del Cours de Poétique al Collège Q de France, Paul Valéry non è solo il prodigioso poeta di capolavori come La giovane Parca e Il cimitero marino, ma è una gloria nazionale e un faro. Come scrive Maria Teresa Giaveri nella sua introduzione a L’opera umana. Corso di poetica 1937-1945 (Feltrinelli, 491 pagg., 27 euro), che raccoglie le lezioni di Valéry più altri testi sui medesimi argomenti dello stesso periodo, un “tout Paris” intellettuale e mondano si accalca alle porte già un’ora prima dell’apertura. La Francia è alle soglie della disfatta militare e dell’occupazione nazista, e in un clima politico arroventato il poeta sessantaseienne è considerato un punto di riferimento in tempi tempestosi. La vicenda di Valéry è affascinante: giovane e appassionato frequentatore del circolo di Mallarmé e dei simbolisti, si defila presto dalla scena letteraria per dedicarsi, per quasi trent’anni, a un lavoro impiegatizio al Ministero della Guerra e poi come segretario di Édouard Lebey, uomo d’affari e già direttore dell’agenzia di stampa Havas. Ma da anni, tutte le mattine, in uno stile unico, e creando un genere nuovo di diario filosofico-psicologico, Valéry scrive i Cahiers che, attingendo da un materiale di 261 quaderni, vengono pubblicati postumi nel 1957, conoscendo poi ulteriori edizioni, che segnano una sensazionale ripresa del “filosofare inattuale” di Nietzsche.
Torna alla poesia su insistenza dell’amico André Gide, il quale vorrebbe che Valéry ripubblicasse i suoi giovanili Versi antichi. Invece, il poeta conclude un poema perfetto come un cristallo di rocca in rigorosi versi alessandrini cui attende da quattro anni, mentre infuria la Prima guerra mondiale, La giovane Parca, pubblicato nel 1917 da Gallimard. Dai tempi di Baudelaire non si sentiva, nella poesia francese, un simile connubio incantato di ritmo, suono, visione. Con inusitata facilità, Valéry torna a pieno regime sui suoi versi che foggia con lo spirito di un artigiano geniale del medioevo. Le regole formali, le convenzioni metriche per lui non sono anticaglie, ma tecniche che, se padroneggiate, riescono a elevare la poesia dal linguaggio comune, sempre più degradato. Il fascino di queste lezioni, ottimamente curate da Paola Cattani e dalla citata Giaveri, sta proprio nel fatto che Valéry, proponendosi né più né meno che l’obiettivo di analizzare cosa sia la poesia, o meglio, il fare poetico (avrebbe voluto chiamarlo corso di Poietica, con derivazione dal greco poíesis, che vuol dire sì poetare ma anche fare, fabbricare) finisce per tenere dei geniali discorsi sulla creatività umana, nella sua specifica modalità di prodursi rispetto alla creatività della natura quando forma, ad esempio, una conchiglia. Discorsi in cui rientrano tutti i molteplici interessi e saperi coltivati da Valéry, dall’economia all’architettura, dalle scienze naturali alla musica.
L’esposizione non è mai sistematica – Valéry era allergico a ogni sistema di pensiero, e perfino le “generalizzazioni” della scienza lo insospettivano – ma alcuni punti fermi colpiscono subito per la loro paradossale esattezza: la poesia, e tutta l’arte, nascono da “sensazioni inutili” e “atti arbitrari”. Un’opera d’arte non serve a niente, ed è fatta di gesti che potrebbero benissimo non essere stati fatti, perché non rispondono a esigenze vitali. Ma «l’invenzione dell’arte è consistita nel cercare di conferire alle une [le sensazioni] una specie di utilità; agli altri [gli atti] una specie di necessità». Una frase che ci ricorda anche l’inflazione dell’aggettivo “necessario” nella attuale promozione dei libri, proprio perché non c’è nessuna necessità interna in loro, cioè nessuna arte. Per Valéry, la crisi dell’arte comincia quando è diventata “facile”, nel doppio significato di “facile da fare” e “facile da disfare”. Quando la poesia ha barattato un’immediata ma superficiale ricezione con la difficoltà di «mettere ordine nel caos della mente».
Un ordine sempre precario, momentaneo, perché «non c’è ordine nella mente», ma che, fissato nell’opera d’arte, riesce a superare il contingente, l’occasionale, l’effimero. In altre parole, riesce a durare come “opera umana”, così come durano le formazioni naturali. In un altro testo incluso nella raccolta, Necessità della poesia, Valéry analizza il degrado del linguaggio, che ha fatto sì che «le nostre parole non sono che rapide significazioni, il più possibile spoglie e immediate. Manca poco che parliamo per iniziali. D’altra parte [...] il telefono non è uno strumento che favorisce il linguaggio forbito». La conferenza da cui sono tratte queste parole fu pronunciata da Valéry quasi cent’anni fa, ma le questioni e i pericoli che prospetta ci sono ben presenti.




