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Carlo Bonomi a Senaldi: "Conte non ascolta Confindustria e imprese, così siamo fermi". Recessione: il Pil crolla del 12,8%, peggio del previsto

Pietro Senaldi
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L'Italia è in recessione: nel secondo trimestre del 2020, dunque in pieno lockdown, secondo i dati Istat il Pil è crollato del 12,8% (il primo trimestre il calo era stato del 5,3%), peggiorando la stima iniziale del - 12,4 per cento. La speranza è che l'economia italiana approfitti del leggero miglioramento della Germania, in calo sì del 9,7% ma meglio del previsto (- 10,1%). Di seguito, l'intervista di Pietro Senaldi al presidente di Confindustria Carlo Bonomi.

 

«Mi prendono per un guerrafondaio perché mi piace dire le cose come le penso, il che è una rarità in un Paese che ormai pare anestetizzato. Ma io sono, al contrario, un dialogante, sempre che qualcuno sia interessato a parlare con gli industriali italiani. Perché il ritornello nei palazzi della politica è che senza l'impresa l'Italia non può ripartire, poi però quando Confindustria chiede di aprire un tavolo sulla situazione economica, sembra che nessuno sia interessato a confrontarsi seriamente. Al mio appello al momento hanno risposto solo la Cisl e la Uil, speriamo sia l'inizio di un dialogo». L'autunno caldo dell'economia è iniziato già subito dopo Ferragosto, quando Carlo Bonomi è tornato a bussare alle porte di Conte e compagnia. «Ci sollecitano proposte che in realtà non sono mai mancate, le ultime per la ripartenza le abbiamo portate agli Stati Generali e in più a metà luglio abbiamo consegnato al governo proposte dettagliate su ammortizzatori sociali e politiche del lavoro» incalza il nuovo presidente di Confindustria. «Siamo ancora in attesa delle risposte». Solo un anno fa Vincenzo Boccia, il predecessore di Bonomi, aveva definito il ministro Di Maio «uno di noi». Molta acqua è passata sotto i ponti. Per lustri Viale dell'Astronomia è stata filogovernativa, passando dalle relazioni di Berlusconi con Montezemolo, D'Amato e Marcegaglia fino all'infatuazione collettiva degli industriali per Renzi. Oggi Confindustria parrebbe candidarsi a ruolo di leader dell'opposizione al governo. Ma il presidente si affretta a chiarire: «L'ho sempre ripetuto, noi non siamo un organo politico, le nostre osservazioni sono solo economiche; in quanto industriali, pensiamo di avere il diritto di dire la nostra sui piani di sviluppo del Paese e, senza presunzione, siamo convinti che il coinvolgimento delle imprese sia ineludibile». Quel che non è chiaro è se a Palazzo Chigi la pensano allo stesso modo. «Comincio a dubitarne» rivela il presidente. «Temo che questo governo pensi di gestire la crisi statalizzando tutto. D'altronde, dei famosi cento miliardi stanziati da Conte, al sistema delle imprese per il momento è stato destinato molto poco, e comunque solo per sostegni di emergenza, nessuna scelta per il futuro».

Come se lo spiega? «C'è un forte sentimento anti-industriale in una parte del governo e la pandemia ha agevolato la componente statalista dell'esecutivo».
M5S ha esercitato una cattiva influenza sul Pd, risvegliandone gli istinti anti-capitalistici?
«Non credo sia una questione partitica. La verità è che nel governo ci sono anime avverse alle imprese a prescindere dai partiti d'appartenenza. Per fortuna però c'è anche chi è convinto che nazionalizzare tutto non sia la strada corretta, come dimostra il caso Alitalia, statalizzata a caro prezzo e ancora senza un piano industriale».
Le industrie si rifaranno con i 209 miliardi del Recovery Fund?
«Mi auguro che la componente illuminata del governo prevalga su quella ancorata a un'idea novecentesca della società. Abbiamo di fronte un'occasione storica: i 209 miliardi sono funzionali al cambiamento necessario al Paese però, se procediamo di questo passo, non abbiamo certezza di se e quando arriveranno».
Presidente, fa il Salvini?
«No, il realista. Ricordo che per accedere a quei soldi dobbiamo ottenere il voto favorevole dei Parlamenti di tutti i 27 Paesi Ue. Non vorrei finisse come con la Costituzione Europea, votata da Strasburgo e poi bocciata da Francia e Olanda, e quindi rimasta lettera morta».
Ha evidenza che la sua preoccupazione possa diventare realtà?
«Beh, innanzi tutto non dobbiamo dimenticare che l'Europa ha ribattezzato l'intesa "Next generation". Significa che i soldi sono subordinati a programmi strutturali e scelte strategiche di riforma e sviluppo. Sono per gli investimenti e per garantire un futuro sostenibile ai giovani. Se il governo continua a usare i soldi per una politica economica esclusivamente assistenzialista tradisce i principi fondanti del Recovery e giustifica l'eventuale voto negativo degli altri Stati».
Ma poi sappiamo che le decisioni della Ue sono politiche, non entrano mai troppo nel merito.
«È un errore pensarla così. Si sta diffondendo l'idea che l'Europa ci sostenga economicamente perché siamo bravi, ma è tutto l'opposto. Riceviamo più fondi degli altri Stati perché siamo l'economia più in crisi. Lo eravamo già prima del Covid, ma l'epidemia ha creato una situazione da economia di guerra e per incanto sono saltati tutti i vincoli e la Banca Centrale Europea ha iniziato a sostenere il nostro debito incondizionatamente, ma è una fiducia a tempo. Se non facciamo i compiti a casa, e Bruxelles ci ha indicato chiare priorità su cui lavorare, il sostegno economico e finanziario verrà meno. Se proseguiremo con la politica dei sussidi improduttivi, ci giocheremo definitivamente il rapporto di fiducia con l'Europa». Cosa farà se il governo continuerà a non ascoltarla? «La domanda è se il governo pensa di andare avanti in eterno tenendo otto milioni di italiani sotto l'ombrello dei sussidi pubblici. Non credo sia possibile. Tra le nostre proposte, non a caso, figura la riforma degli ammortizzatori sociali, a dimostrazione che Confindustria sta lavorando per il bene del Paese».
Che però non sembra aver incontrato molta fortuna.
«Già, la ministra del Lavoro Catalfo pensa di farla senza le imprese, che pure pagano tutta la cassa integrazione ordinaria e parte di quella straordinaria. Vede, è tutto il metodo che non funziona. Se dici di voler ascoltare le imprese, poi devi coinvolgerle».
Il presidente dell'Inps, Tridico, accusa le aziende di aver approfittato della cassa integrazione legata alla pandemia per risparmiare. Cosa gli risponde?
«Ricordiamoci dove eravamo quando è iniziato il lockdown, nessuno sapeva quanto sarebbe durato e come avremmo riaperto. Nel clima di incertezza, le imprese si sono dovute tutelare. Se Tridico ritiene che abbiano violato la legge, le denunci. Ma sono ancora in attesa che l'Inps fornisca i numeri suddivisi per settore delle 234mila imprese che avrebbero fatto ricorso alla cassa da furbette e ci dica quante di questo lo hanno fatto impropriamente. La verità è che il fatturato a venire era sconosciuto a tutti; infatti nell'emergenza non figurava tra i criteri per richiedere la cassa».
Ma i dati dell'economia in ripresa sono solidi o costituiscono il rimbalzo del gatto morto?
«I dati positivi sono congiunturali perché se guardiamo al tendenziale siamo ancora a -10%. Sono dovuti per lo più alla ripresa della manifattura ma oggi nessun imprenditore ha una visione superiore ai tre-quattro mesi di ordinativi, considerato anche il ripristino delle scorte. Per sostenere la ripresa è necessario ben altro: porre fine al clima di incertezza che avvolge il Paese».
Come si fa a fornire certezze di fronte a uno degli eventi più inaspettati e incontrollabili del secolo come la comparsa del Covid?
«Qualcosa di più si può, anzi si deve, fare. Per esempio interrompere queste decretazioni omnibus mensili che poi, votate in Parlamento, restano inattuate. Mancano 169 decreti attuativi di provvedimenti del primo governo Conte, a cui si aggiungono altri 124 della legge dello scorso dicembre e 236 relativi ai provvedimenti emessi durante i mesi del lockdown. Senza contare quelli del decreto Agosto. Camera e Senato votano ma poi le misure attuative mancano. Intanto la politica si attiva solo per tagliare i parlamentari: non oso immaginare come sarà dopo».
Se non riuscisse ad aprire le scuole in sicurezza e per tempo il governo dovrebbe dimettersi?
«Non sta a me dire se la scuola possa essere l'incaglio sul quale naufragherà il governo. Posso solo dire che, da cittadino, sono molto preoccupato dal non sapere come sarà gestito il Covid tra i banchi. Abbiamo già perso un anno di formazione, perderne due significa giocarsi il futuro del Paese. Il balletto sulla riapertura delle scuole, alle quali affidiamo il nostro bene più prezioso, ovvero i nostri figli, deve finire immediatamente».
Ma è pensabile che l'Italia riparta se i lavoratori restano a casa in smart-working?
«Il lavoro da remoto ci è servito per non chiudere il Paese durante il lockdown ma è evidente che non si può andare avanti così. Qualcosa rimarrà, ci saranno meno riunioni, meno viaggi di lavoro, ma non si può ristabilire un clima di chiarezza e positività nel Paese lasciando la gente a casa nell'incertezza. Peraltro, la formazione del personale, la crescita professionale e la trasmissione generazionale dei saperi vengono inevitabilmente meno con il lavoro da remoto».
La pandemia e il lavoro da remoto hanno impigrito gli italiani, cambiandone il rapporto con le imprese?
«Ci sono studi economici e sociologici sugli effetti della pandemia, e anche sugli aspetti che riguardano il modo di vivere il lavoro. Il rapporto umano in azienda ha un valore inestimabile; se viene a mancare, a mio avviso si perde molto. Le ricordo che alcuni macro-effetti quantitativi dell'incertezza sono già noti: l'Istat ha stimato 700mila inattivi in più da febbraio. Italiani che il lavoro non ce l'hanno e hanno anche smesso di cercarlo».
Sono in scadenza molti contratti collettivi. Lei ha parlato di necessità di rivoluzionare tutto il mondo del lavoro: cosa intende?
«Non si può più legare la retribuzione prioritariamente alla prestazione oraria; tantomeno si può pensare di mantenere la stessa retribuzione con meno ore di lavoro o meno presenza: tutti i Paesi che hanno tentato questa strada sono tornati indietro leccandosi le ferite. Penso alla Francia di Mitterand. Le economie che funzionano legano la retribuzione alla produttività. Dobbiamo sederci a un tavolo con governo e sindacati e cambiare insieme la concezione del mondo del lavoro. Serve un grande patto per l'Italia».
Le diranno che vuole ripristinare il lavoro a cottimo.
«Dice così chi è fermo a una concezione fordista del lavoro. Il lavoro va commisurato ai risultati, in fondo è questa anche la filosofia che sta alla base dello smart-working. I vecchi contratti non stanno più in piedi, pensi alla necessità di potenziare previdenza e assitenza integrativa, formazione permanente e assegno di ricollocazione».

 

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