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Fisco, welfare e imprese: Giorgia Meloni avvia la rivoluzione liberale

Sandro Iacometti
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Mentre tutti son lì con la lente d'ingrandimento a cercare sui social qualche traccia di un passato morto e sepolto, in pochi si sono accorti (o hanno finto di farlo) di un fatto macroscopico che è diventato troppo ricorrente per poter essere minimizzato o liquidato come una postura di facciata. Ogni volta che Giorgia Meloni parla di temi che hanno a che fare con la vita economica e sociale, siano essi attinenti al fisco, alla giustizia, al lavoro o al welfare, ripete sempre la stessa frase: «Vogliamo aiutare chi crea ricchezza». Lo ha detto nel suo discorso di insediamento alle Camere, lo ha ribadito in dichiarazioni e interviste, lo ha ridetto giovedì nella conferenza stampa di fine anno. Non si tratta di parole buttate lì, a casaccio. Né di uno slogan vuoto di significato. È un programma politico, un cambio di prospettiva copernicano a cui si ispirano gran parte delle riforme annunciate e di quelle solo accennate nella manovra di bilancio appena licenziata dal Parlamento. Altro che fascismo, Msi, destra sociale, bracci alzati e fiamme. In quella frase c'è il senso di una rivoluzione liberale e anche un po' liberista che il premier, pur provenendo da una formazione non proprio affine, si è messa in testa di realizzare. Senza rinnegare le sue radici, s'intende, come ha fatto capire bene durante la conferenza stampa difendendo il ruolo del Movimento sociale nella nostra storia repubblicana, ma, ma prospettando un percorso che è lontano anni luce da quel vecchio mondo e da quei vecchi ideali.

 

VECCHI FANTASMI - Nella testa della Meloni non ci sono vecchi fantasmi, ma nuove (almeno per l'Italia) idee: la difesa della proprietà privata («non tasseremo mai la prima casa»), il fisco come mezzo e non come fine (rottamazione delle cartelle esattoriali che costa più riscuotere che incassare, distinzione tra chi dichiara e non riesce a pagare da chi non dichiara affatto, aiuti ai settori messi in difficoltà, taglio delle tasse per chi produce e assume), il graduale smantellamento dell'assistenzialismo improduttivo e socialmente iniquo (la stretta sul reddito di cittadinanza, perché è «ingiusto dare le tasse di chi ha accettato di fare un lavoro non adeguato alle sue capacità a chi vuole essere mantenuto dallo Stato in attesa del lavoro dei sogni»), la riabilitazione dei lavoratori autonomi e delle partite Iva, fondamentali per il tessuto produttivo (flat tax), la reintroduzione di un principio di legalità esteso a tutti, compresi gli ambiti finora coperti da una sorta di impunità buonista (regole per le Ong, pugno duro contro occupazioni illegali e party non autorizzati), la rivalutazione della famiglia e della natalità come fattore di sviluppo economico e non come astratto valore etico (il rafforzamento dell'assegno unico per i nuclei numerosi e la proroga di Opzione Donna per le madri), la trasformazione della giustizia da strumento di persecuzione e di esercizio del potere in una leva per sbloccare le energie della società (separazione delle carriere, riforma dell'abuso d'ufficio, del traffico di influenze, del concorso esterno in associazione mafiosa, dell'uso delle intercettazioni, della prescrizione e dei reati di corruzione), l'attenzione alle esigenze delle imprese e ai punti di forza dell'economia italiana («non vogliamo disturbare chi fa», nuovo codice degli appalti, taglio del cuneo fiscale, difesa del made in Italy, attenzione ai prodotti agricoli nostrani), la lotta all'ambientalismo ideologico e autolesionista (sicurezza energetica, transizione ecologica senza distruggere intere filiere produttive come l'automotive, apertura sul nucleare, ripartenza della trivelle).

 

CAMBIO DI PARADIGMA - Al fondo di tutto c'è sempre quell'idea iniziale, quel cambio di paradigma, quella banalità rivoluzionaria (e liberale) in base alla quale per redistribuire i soldi, e quindi finanziare il welfare, aiutare i poveri, sostenere chi resta indietro, accogliere i migranti, migliorare la sanità, rafforzare la sicurezza e incrementare il benessere generale della società, quei soldi bisogna prima produrli. La disoccupazione si combatte creando lavoro, non dando sussidi. L'indigenza si deve debellare, non tamponare con elemosine di Stato. «Non guardo al consenso, ai sondaggi ma alla curva del Pil, dell'occupazione, della ricchezza, di quanti figli si fanno», ha detto la Meloni giovedì. Ecco, è questa la sfida. Mettere il Paese in condizione di crescere, dando una spinta al mercato e mettendo a dieta lo Stato. Per poi dimostrare concretamente ai cittadini, senza doversi mettere a spiegare i benefici della vecchia mano invisibile di Adam Smith o i vantaggi delle api egoiste di Bernard de Mandeville, che quando il denaro aumenta, ce n'è un po' di più per tutti. I tempi per ottenere risultati tangibili sono lunghi. Forse più lunghi di quanto potrà durare il consenso della Meloni, impegnata in una battaglia che non richiede solo leggi e riforme, ma un cambiamento culturale che in Italia non è neanche detto sia possibile, ma che di sicuro sarà lento e complicato. Forse anche per lo stesso centrodestra e per la sua leader.

 

 

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